Il triestino, un dialetto di matrice veneta con apporti slavi e tedeschi, in corso di graduale assorbimento, come altri dialetti, da parte dalla lingua nazionale, a differenza di altri dialetti non è il prodotto della lunga storia della città in cui è parlato. Il triestino è nato solo nella prima metà del '700, quando Trieste ha cominciato ad accogliere le migliaia di immigrati che vi trovavano opportunità di lavoro grazie all'istituzione del porto franco ad opera degli Asburgo, sostituendosi così, in modo travolgente e in tempi relativamente rapidi e, caso non molto frequente, senza farsene complessivamente influenzare se non in qualche sparuto termine, al dialetto parlato in loco fino a quel momento e da quel momento destinato a soccombere: il tergestino.
Il tergestino era un dialetto retoromanzo, cugino del ladino e affine alla lingua dei mal sopportati vicini di casa dei triestini, i furlani o, per evitare, come se fosse una parola tabù, il termine ufficiale, ma senza un vero grande slancio creativo, lànfur (assenza simile a quella che ha portato i francesi ad invertire arabe prima in beur e poi questo, dopo un'altra giravolta, in rebeu).
Il tergestino era un dialetto retoromanzo, cugino del ladino e affine alla lingua dei mal sopportati vicini di casa dei triestini, i furlani o, per evitare, come se fosse una parola tabù, il termine ufficiale, ma senza un vero grande slancio creativo, lànfur (assenza simile a quella che ha portato i francesi ad invertire arabe prima in beur e poi questo, dopo un'altra giravolta, in rebeu).
Recentemente ho cercato di valutare un po' di persona in quale misura il triestino sia effettivamente immune o meno dalle influenze del più antico ed estinto tergestino. Me ne ha data l'occasione l'essere riuscita a procurarmi un volume di Ivan Crico, premio Biagio Marin 2009, De arzènt zù (D'argento scomparso), che restituisce, in forma di poesie (alcune pubblicate su rebstein), il dialetto tergestino grazie ad un'attenta lettura di uno dei pochi riferimenti in materia, ovvero i Dialoghi piacevoli in dialetto vernacolo triestino di Giuseppe Mainati, pubblicato nel 1828. Non sono in grado di giudicare l'autorevolezza dei Dialoghi, contestati come sono da più parti quanto alla effettiva rispondenza del tergestino ricostruito nel 1828 a quello reale, più antico, eppur usati, nei suoi studi, da Graziadio Isaia Ascoli, ma li trovo in ogni caso dilettevoli.
Se i Dialoghi, per espressa volontà del loro autore, nascevano dal desiderio di "conservare almeno in parte la memoria" di un dialetto in via d'estinzione, De arzènt zù di Crico, che è di Pieris, in provincia di Gorizia, è nato dalla sorpresa di trovare, nell'antico dialetto tergestino ormai estinto, o almeno in quanto è riuscito a trasmetterne Mainati, e quindi nel dialetto del proprio vicino di casa, le parole del proprio dialetto, il bisiac, parole come nòu (nuovo) e come vìu (vivo). Il bisiac è il dialetto dei bisiachi, la versione locale dei mesopotamici, abitando, come abitano, il territorio posto tra la foce del Timavo e il basso corso dell'Isonzo. A Trieste, se posso costruire una grossolana scala di valori tra rivali e soppesare l'impalpabilità dei sentimenti nei loro confronti, i bisiachi sono solo un po' meno invisi dei lànfur, soprattutto grazie alla provvidenziale funzione cuscinetto con cui essi tengono a distanza vitale i lànfur dai triestini, mentre gli istriani sono considerati peggio dei genovesi, degli scozzesi, dei catalani e degli olandesi messi assieme. E gli slavi? I s'ciavi, chiaramente, sono fuori scala.
Se i Dialoghi, per espressa volontà del loro autore, nascevano dal desiderio di "conservare almeno in parte la memoria" di un dialetto in via d'estinzione, De arzènt zù di Crico, che è di Pieris, in provincia di Gorizia, è nato dalla sorpresa di trovare, nell'antico dialetto tergestino ormai estinto, o almeno in quanto è riuscito a trasmetterne Mainati, e quindi nel dialetto del proprio vicino di casa, le parole del proprio dialetto, il bisiac, parole come nòu (nuovo) e come vìu (vivo). Il bisiac è il dialetto dei bisiachi, la versione locale dei mesopotamici, abitando, come abitano, il territorio posto tra la foce del Timavo e il basso corso dell'Isonzo. A Trieste, se posso costruire una grossolana scala di valori tra rivali e soppesare l'impalpabilità dei sentimenti nei loro confronti, i bisiachi sono solo un po' meno invisi dei lànfur, soprattutto grazie alla provvidenziale funzione cuscinetto con cui essi tengono a distanza vitale i lànfur dai triestini, mentre gli istriani sono considerati peggio dei genovesi, degli scozzesi, dei catalani e degli olandesi messi assieme. E gli slavi? I s'ciavi, chiaramente, sono fuori scala.
Il sapore di fondo dei Dialoghi di Mainati, così come quello delle poesie di Crico, è, nelle mie orecchie triestine, lontano dal dialetto familiare ed effettivamente prossimo al ((((bellissimo)))) friulano: uolaress (vorrei), aimò (ora), aulìu (ulivi), inuiar (gennaio), aurìl (aprile), aga (acqua), omis (uomo), aurègla (orecchia), curtièl (coltello), òu (uovo), muàrt (morto, come Il nini delle poesie a Casarsa di Pasolini), fauelà (parlare, similmente al gradese di Biagio Marin), narìdulis (chioccioline), biel, biela (bello, bella), màmol, màmula, màmulis (ragazzo, ragazza, ragazze), tiàra (terra).
Vi ho però anche trovato, con gran soddisfazione, alcune parole che sono riuscite a trapiantarsi nel triestino e a sopravvivere nel tempo: troz (sentiero, viottolo, diventato, in triestino, trozo), mastrusar (diventato mastruzar, schiacciare, stropicciare), cacabùs (argilla, creta, e così rimasto), chìeba (gabbia, diventato chèba), e, dulcis in fundo, un rimando al gioco del dondolo (se zotolèuem: ci dondolavamo), che ancora oggi a Trieste si designa con il termine composto zìtolo-zòtolo, a me dolce, va da sé, nonostante la ruvidezza del suono, in quanto parola d'infanzia, in tutti i sensi.
Infine, una parola tergestina che mi è ancora più cara perché tra quelle condivise da ambo i lati del confine di stato, ma che non sono in grado e comunque non voglio attribuire a nessuno dei due lati, è potòch (ruscello, rigagnolo). Potòch, in effetti, si trova sia nel triestino patoc sia nello sloveno potok e, più in generale, in tutte le lingue slave. Se sia stato il retoromanzo ad inserirsi nello sloveno o, come più probabile, il viceversa, ha un interesse relativo, ma la eleggerei in ogni caso a parola di convivenza, quindi a parola bella.
Concludo ricordando che questa, come le mie altre varie incursioni nel triestino, che parlo, ormai da molti anni, per questioni di distanza, solo al telefono con miei e nelle mie rare puntate sul posto, non è provocata da nostalgia: si tratta di una curiosità, non priva di affetto, che assecondo con i mezzi a disposizione e che non è venuta meno nemmeno ora che mi trovo, per gran parte del mio tempo, ad alternare gli sforzi per controllare le e chiuse e aperte e mute ai cenni di nasalizzazioni e ai timidissimi grattamenti di gola, raccogliendo, come al solito, soddisfazioni per gli inevitabili progressi e frustrazioni per le altrettanto inevitabili cadute.
Anche perché, in realtà, in cima ai miei giochi, in questi giorni, a dirla tutta, c'è l'ungherese.
E sarebbe assurdo magari riuscire a varcare, non dico le porte, ma almeno un lucernaio, del mondo ungherese e ignorare quello da cui provengo.
P.S. Un gentile e generoso lettore di questo blog mi ha assicurato che l'avrei imparato in cinque minuti, l'ungherese. Se teniamo presente che, in base alla nota regola di conversione, 1 anno di vita della costellazione del Cane Maggiore corrisponde a 7 secondi di vita di un uomo ungherese, secondo me ha ragione.
Concludo ricordando che questa, come le mie altre varie incursioni nel triestino, che parlo, ormai da molti anni, per questioni di distanza, solo al telefono con miei e nelle mie rare puntate sul posto, non è provocata da nostalgia: si tratta di una curiosità, non priva di affetto, che assecondo con i mezzi a disposizione e che non è venuta meno nemmeno ora che mi trovo, per gran parte del mio tempo, ad alternare gli sforzi per controllare le e chiuse e aperte e mute ai cenni di nasalizzazioni e ai timidissimi grattamenti di gola, raccogliendo, come al solito, soddisfazioni per gli inevitabili progressi e frustrazioni per le altrettanto inevitabili cadute.
Anche perché, in realtà, in cima ai miei giochi, in questi giorni, a dirla tutta, c'è l'ungherese.
E sarebbe assurdo magari riuscire a varcare, non dico le porte, ma almeno un lucernaio, del mondo ungherese e ignorare quello da cui provengo.
P.S. Un gentile e generoso lettore di questo blog mi ha assicurato che l'avrei imparato in cinque minuti, l'ungherese. Se teniamo presente che, in base alla nota regola di conversione, 1 anno di vita della costellazione del Cane Maggiore corrisponde a 7 secondi di vita di un uomo ungherese, secondo me ha ragione.
Porto di Trieste, spedizione imperial regia nell'est asiatico del 1868-1870
Porto di Trieste - allora Austria, oggi Italia - preso dal faro (della Lanterna, ndf), con innumerevoli navi, sullo sfondo il lato sud della città
Autore: Wilhelm Burger
ottobre 1868
Foto e didascalia da Bildarchiv Austria
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