Seit August gearbeitet, im allgemeinen nicht wenig und nicht schlecht, aber weder in ersterer noch in letzterer Hinsicht bis an die Grenzen meiner Fähigkeit, wie es hätte sein müssen, besonders, da meine Fähigkeit aller Voraussicht nach (Schlaflosigkeit, Kopfschmerzen, Herzschwäche) nicht mehr lange andauern wird. Geschrieben an Unfertigem: ›Der Prozeß‹, ›Erinnerungen an die Kaldabahn‹, ›Der Dorfschullehrer‹, ›Der Unterstaatsanwalt‹ und kleinere Anfänge. An Fertigem nur: ›In der Strafkolonie‹ und ein Kapitel des ›Verschollenen‹, beides während des vierzehntägigen Urlaubs. Ich weiß nicht, warum ich diese Übersicht mache, es entspricht mir gar nicht! 31. Dezember 1914
Da agosto lavorato, in complesso non poco e non male, ma in nessun caso fino ai limiti della mia capacità, come sarebbe dovuto essere, specialmente considerato che la mia capacità, secondo tutte le previsioni (insonnia, mal di testa, insufficienza cardiaca), non durerà più a lungo. Scritto opere senza finirle: Il processo, Ricordando la ferrovia di Kalda, Il maestro del villaggio, Il sostituto procuratore ed altri inizi più brevi. Completato solo Nella colonia penale ed un capitolo del Disperso, entrambi durante le due settimane di ferie. Non so perché stia a fare questa carrellata: non mi corrisponde per niente!
Nonostante la luna corneggi spesso e con periodicità, che io sappia, solo Pulci e Montale se ne sono accorti. Come è noto, "luna" è un termine tardo, risalente all'epoca in cui, sfortunatamente, nella penisola tlöniana si abbandonò l'uso esclusivo di verbi e di aggettivi caratteristico della lingua primordiale e ci si rassegnò, per stanchezza o esaurimento della fantasia, all'introduzione dell'uso dei sostantivi. Non servirà ricordare che, originariamente, i versi di Pulci e di Montale sarebbero suonati, più o meno, così: lunava da poco, corneggiando appena; e sul tardi lunava corneggiando.
Lunare, corneggiare, solare, melare, tavolare (o attavolare), divanarsi, incaffettarsi... "In principio era il verbo", contrariamente alla convinzione generale, non c'entra col logos, ma, come dice la parola stessa, proprio col verbo. È una forzatura? Un'esagerazione? Una vera e propria farneticazione da eccesso di zuccheri nel sangue? Forse. Forse, però, è solo una piccola forma di resistenza, invisibile e sicuramente destinata a soccombere, eppure la più radicale che io, come chiunque altro, abbia a disposizione. Resistenza alla lingua e alla letteratura dominanti, per cominciare, come quelle, nel Novecento italiano, di Alberto Moravia. Sono insipidi, i verbi di Moravia, anonimi, privi di personalità o di
inventiva, accuratamente lontani dalla forza caratteriale dei dialetti e
dall'esuberanza di apporti stranieri; sono verbi - paradossalmente -
quasi privi di azione, movimento e fluidità. Pubblicatissimo, lettissimo, veneratissimo, almeno fino ad un paio di decenni fa, non credo sia poi così male, in fondo, che non lo si legga più nella misura in cui lo si faceva in passato. Potrebbe essere, questo, un segnale di speranza, se non fosse offuscato da altri segnali, di segno opposto. Dacia Maraini, per non allontanarsi troppo dall'entourage di Moravia, temo si legga tuttora più dello strettamente necessario (e, inspiegabilmente, più di suo padre). Lo deduco dalla generosità con cui la ospita il Corriere. La Maraini, come i verbi di Moravia, tende a non muoversi, a non spostarsi mai, nemmeno quando viaggia, dal suo stabile centro di osservazione, che è, beninteso, il centro del mondo, in modo non molto dissimile dall'atteggiamento di un qualsiasi nazionalista o localista, saldo sulle gambe ben piantate in mezzo al suo orticello - che sia di una nazione o di una regione o località non cambia poi troppo. Ed è così che la sera, in un teatro parigino, Dacia Maraini riesce a trovare un posto di strapuntino — che qui si chiama strapuntin (sic), pronunciato «strapunten» e sembra una parola storpiata da Totò nel suo italo-francese da avanspettacolo —. Il movimento, il moto, incluso quello naturale e libero delle parole che scavalcano le frontiere politiche e linguistiche, non è di suo gradimento, le è estraneo, persino quando le parole provengono dal suo Paese (e solo tornando al luogo natale dopo essere emigrate altrove assumono il loro attuale significato: "strapuntino" diventa seggiolino, sedile aggiunto, proprio grazie al passaggio in area francese, perché l'originale termine italiano, appartenente all'ambito marittimo, significava materasso).
Esagerazione o farneticazione o piccola battaglia di retroguardia che sia, non mi pare di essere sola: mi sostengono i poeti, soprattutto, come Pulci e Montale e molti altri, ma anche degli autori di prosa. Oggi, in particolare, questi due:
No hay sustantivos en la conjetural Ursprache de Tlön, de la que
proceden los idiomas "actuales" y los dialectos: hay verbos
impersonales, calificados por sufijos (o prefijos) monosilábicos de
valor adverbial. Por ejemplo: no hay palabra que corresponda a la
palabra luna, pero hay un verbo que sería en español lunecer o lunar.
Surgió la luna sobre el río se dice hlör u fang axaxaxas mlö o sea en su
orden: hacia arriba (upward) detrás duradero-fluir luneció. (Xul Solar
traduce con brevedad: upa tras perfluyue lunó. Upward, behind the
onstreaming it mooned.)
Jorge Luis Borges, Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, 1940
avverto una letizia da scolaretto cui si concede una inedita vacanza, l'esenzione da qualsiasi doveroso aggiornamento. E allora ho tolto dalla libreria... ho cavato dalla fila dei libri il Morgante maggiore di Luigi Pulci. In un momento in cui più fitti affluiscono i libri che agiteranno le socievoli acque della attualità letteraria, in cui siamo avvolti nella tenera o rissosa psicologia della narrazione, penso sia opportuno leggere un testo, come il Morgante maggiore, che pare affatto esente da psicologismi, che non è attuale, non verrà proposto per alcun premio, e non verrà riscoperto da un critico di fine sentire. Ho sempre amato questo poema quattrocentesco, che è uno dei libri più sfrenatamente divertenti della nostra letteratura; un libraccio ridanciano, drammatico, gaglioffo, rissoso, plebeo e aristocratico, un divertimento ed un lavoro di calcolata dottrina. Ci sono libri che danno una litigiosa sensazione di libertà, per il loro destino un poco periferico, che li fa restare ai margini delle storie ufficiali, scolastiche: sono libri un po' bastardi, di dubbia legalità domestica, e senza ascendenti riconosciuti. Sono dei tàngheri, dei mettimale, dei poco di buono; sono ambigui e insieme di buon umore in un modo provocatorio. Hanno del canagliesco. Non occorre rompere lampioni; si possono fare più canagliate con una ben manipolata sintassi e un lessico furbesco che con le motociclette delittuose del cinema. Aprire un certo libro - in questo caso il Morgante - è assolutamente ingiustificato; appunto questo è un gesto libero... ho scelto il Pulci, credo, perché non c'era nessuna ragione per farlo, dunque era l'esempio perfetto.
Giorgio Manganelli, Un'allucinazione fiamminga: il Morgante maggiore raccontato da Manganelli, Socrates, 2006
Nella mia storia personale, San Nicolò è più importante di Babbo Natale, se non altro perché San Nicolò arriva prima, il 6 dicembre. E poi consegna i doni quando a casa non c'è ancora nessun abete o decorazione e la neve è un evento quasi impossibile, dimostrando disinteresse ed amore per le mezze stagioni e la vita quotidiana, oltre che una certa autonomia dal bébé più festeggiato del mondo.
San Nicolò, quando passava da me, cambiava la zona di consegna ogni anno: di preferenza sul davanzale, ma anche in qualsiasi altro luogo della casa, purché fosse poco accessibile alla vista e alle mani di un bambino, ad esempio sopra l'armadio. Era - e naturalmente è - furbo.
San Nicolò, poi, esaudiva al meglio delle sue possibilità ogni mio desiderio. Una volta confuse il kit del piccolo chimico, da me richiesto, con quello del profumiere, o forse si sbagliò semplicemente di indirizzo, ma non mosse una delle mille rughe del suo volto quando gli chiesi un fucile. Adorabile.
Solo che poi all'asilo mi successe di incontrare San Nicolò di persona ed ebbi così modo di osservarlo da vicino per un po'. Nella simulazione della barba e delle sopracciglia c'erano ampi margini di miglioramento.
P.S. San Nicolò è anche piuttosto fortunato: non si ebbero mai notizie di bambine con la zona dietro le orecchie o i polsi straziati dalla nitroglicerina.
I sat on the bank above Bernadotte
And dropped crumbs in the water,
Just to see the minnows bump each other,
Until the strongest got the prize.
Or I went to my little pasture,
Where the peaceful swine were asleep in the wallow,
Or nosing each other lovingly,
And emptied a basket of yellow corn,
And watched them push and squeal and bite,
And trample each other to get the corn.
And I saw how Christian Dallman’s farm,
Of more than three thousand acres,
Swallowed the patch of Felix Schmidt,
As a bass will swallow a minnow.
And I say if there’s anything in man -
Spirit, or conscience, or breath of God
That makes him different from fishes or hogs,
I’d like to see it work!
Edgar Lee Masters, Spoon River Anthology, 1916
Schroeder, il pescatore
Sedevo sulla riva del Bernadotte
e gettavo molliche nell'acqua,
per vedere i pesciolini combattere
finché il più forte otteneva la preda.
Oppure andavo al mio piccolo pascolo,
dove i maiali tranquilli se ne dormivano nella broda,
o ammusando amorosamente fra loro,
e vuotavo un canestro di meliga gialla
e li osservavo spingersi e strillare e mordersi
e pestarsi l'un l'altro per arrivarci.
E così vidi la tenuta di Christian Dallmann
di più di tremila acri
inghiottire il pezzetto di Felix Schmidt,
come un luccio inghiotte un pesciolino.
Dico, se c'è qualcosa nell'uomo -
spirito, o coscienza, o soffio di Dio -
che lo renda diverso dai pesci e dai porci,
mi piacerebbe vederlo!
Spoon River anthology: testo integrale con traduzione a fronte, Einaudi 1948, traduzione di Fernanda Pivano
(Reuters) - Two Italian marines on anti-pirate duty charged in India with killing two fishermen in February arrived home on Saturday for a family Christmas after India gave them special leave.
"Finally we are breathing the air of home. We have to thank all the institutions which made all this possible," said Massimiliano Latorre on arrival at Rome's Ciampino airport with his colleague, Salvatore Girone.
"Ten long months have passed and we really didn't expect to be coming back for Christmas."
The two sailors, part of a military security team protecting the tanker Enrica Lexie, are accused of shooting the two fishermen they say they mistook for pirates off the southern Indian state of Kerala.
The incident has caused a serious diplomatic dispute between Italy and India, which have traditionally had good relations.
The two non-commissioned officers had been out of detention on bail but had not been permitted to leave India until the Kerala high court accepted a request to allow them to return home for Christmas.
The Italian government has undertaken to ensure they return to India by January 10.
The men were welcomed at the airport by Foreign Minister Giuliano Terzi and Defence Minister Giampaolo Di Paola.
Prime Minister Mario Monti also called the two shortly after their arrival to reiterate the government's determination to reach a final settlement of the case.
(Reporting by Roberto Landucci, edited by Richard Meares)
Ricevuti al Quirinale i marò Latorre e Girone rientrati dall'India
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ricevuto al Quirinale i due sottufficiali della Marina militare, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, appena rientrati dall'India, accompagnati dal Ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, dal Ministro degli Affari Esteri, Giulio Terzi di Sant'Agata, e dal Sottosegretario agli Esteri Staffan de Mistura.
E sapete cosa dice la polvere quando viene spazzata via dal tavolo? «”Ricordati di me” sussurra la polvere». Nulla potrebbe essere più estraneo all’agenda mentale di ciascuno di voi, giovani e ultramoderni, del sentimento espresso in questo distico del defunto poeta tedesco Peter Huchel. L’ho citato non perché vorrei instillare in voi l’affinità per le cose piccole – semi e piante, granelli di sabbia o zanzare –, piccole sì, ma numerose. Ho citato quei versi perché mi piacciono, perché in essi riconosco me stesso e, a ben vedere, qualunque organismo vivente destinato a essere spazzato via dalla superficie che gli è stata concessa. «”Ricordati di me” sussurra la polvere».
[Iosif Brodskij, Elogio della noia, in Profilo di Clio, traduzione di Arturo Cattaneo, Milano, Adelphi 2003 (2), p. 103]
Ein Rauch,
ein Schatten steht auf,
geht durch das Zimmer,
wo eine Greisin,
den Gänseflügel
in schwacher Hand,
den Sims des Ofens fegt.
Ein Feuer brennt.
Gedenke meiner,
flüstert der Staub.
Novembernebel,
Regen, Regen
und Katzenschlaf.
Der Himmel schwarz
und schlammig über dem Fluß.
Aus klaffender Leere fließt die Zeit,
fließt über die Flossen
und Kiemen der Fische
und über die eisigen Augen
der Engel,
die niederfahren hinter der dünnen Dämmerung,
mit rußigen Schwingen zu den Töchtern Kains.
Ein Rauch,
ein Schatten steht auf,
geht durch das Zimmer.
Ein Feuer brennt.
Gedenke meiner,
flüstert der Staub.
Peter Huchel
Die Gedichte. Suhrkamp, 1997
Gli angeli
Un filo di fumo,
un'ombra si leva,
attraversa la stanza,
dove una vecchia,
l'ala di un'oca
nella debole mano,
spazza la mensola del forno.
Un fuoco brucia.
Ricordati di me,
sussurra la polvere.
Nebbia di novembre,
pioggia, pioggia
e sonno di gatti.
Il cielo nero
e fangoso sopra il fiume.
Dalla spalancatura dell'abisso scorre il tempo,
scorre sulle pinne
e branchie dei pesci
e sopra gli occhi ghiacciati
degli angeli
che con ali fuligginose, dietro il sottile crepuscolo
discendono sulle figlie di Caino.
Un filo di fumo,
un'ombra si leva,
attraversa la stanza.
Un fuoco brucia.
Ricordati di me,
sussurra la polvere.
The Angels
A wisp of smoke
a shadow rises,
crosses the room,
where an old woman,
a goose's wing in her feeble hand,
sweeps the oven ledge.
A fire is burning.
Remember me,
whispers the dust.
November mist
rain, rain
and the sleep of cats.
The sky black
and miry above the river.
From gaping emptiness time flows,
flows over the fins
and gills of fish
and over the icy eyes
of the angels,
who descend behind the thin dusk
with sooty wings, to the daughters of Cain.
A wisp of smoke
a shadow rises,
crosses the room.
A fire is burning.
Remember me,
whispers the dust.
Nadzieja bywa, jeżeli ktoś wierzy,
Że ziemia nie jest snem, lecz żywym ciałem,
I że wzrok, dotyk ani słuch nie kłamie.
A wszystkie rzeczy, które tutaj znałem,
Są niby ogród, kiedy stoisz w bramie.
Wejść tam nie można. Ale jest na pewno.
Gdybyśmy lepiej i mądrzej patrzyli,
Jeszcze kwiat nowy i gwiazdę niejedną
W ogrodzie świata byśmy zobaczyli.
Niektórzy mówią, że nas oko łudzi
I że nic nie ma, tylko się wydaje,
Ale ci właśnie nie mają nadziei.
Myślą, że kiedy człowiek się odwróci,
Cały świat za nim zaraz być przestaje,
Jakby porwały go ręce złodziei.
Czesław Miłosz
Świat (Poema naiwne), 1943
Speranza
C'è speranza se si crede
che la terra non è un sogno, ma un corpo vivo,
e che vista, tatto e udito non mentono.
E tutte le cose qui conosciute
sono come un giardino visto dal cancello.
Non ci si può entrare, eppure esiste, per forza.
Se guardassimo meglio e in modo più saggio
vedremmo ancora un nuovo fiore e stelle ignote
nel giardino del mondo.
Alcuni dicono che la vista è ingannevole
e che non c'è nulla, solo apparenza.
Sono questi, quelli senza speranza.
Pensano che appena l’uomo si volta
il mondo intero alle sue spalle non esista più,
come se fosse trafugato dalle mani di un ladro.
Ecco un fatto relativamente raro: una poesia che non è a prova di bambino. Forse perché non serve essere saggi, per avere speranza nei primi anni di vita, mentre serve esserlo molto da adulti, e moltissimo nel 1943. Il bambino, quando vuole nascondersi, dispone di un mezzo semplice e rapido per farlo, anche prima di saper camminare: si copre gli occhi. Non vedendo più nulla, è convinto di non essere visto dagli altri, ma non prova paura o disperazione, avverte soloun senso di sospensione e delle aspettative, prima del rinnovato piacere, non appena riapre gli occhi,di rivedere il mondo e di ridiventare visibile (oltre alla gioia per la riuscita magia). È come se non percepisse alcuna distinzione tra se stesso ed il mondo. Ci dev'essere un momento, verso i due-tre anni, in cui nella vita di ognuno compare il ladro che vuole portarsi via tutta la parte del mondo preclusa alla vista e traccia un netto confine del mondo al di fuori di sé. Per poter realizzare che non si può diventare invisibili e che il mondo nascosto rimane presente, e quindi per mantenere intatte le aspettative dell'infanzia e la speranza, bisogna tradirla, l'infanzia.
Die Anstalt ist für mich ein Federbett, so schwer wie warm. Wenn ich hinauskriechen würde, käme ich sofort in die Gefahr mich zu verkühlen, die Welt ist nicht geheizt.
L'Istituto [di assicurazione] per me è un piumino, tanto pesante quanto caldo. Se ne uscissi, correrei subito il rischio di raffreddarmi. Il mondo non è riscaldato.
Я говорил себе, что я вижу мир. Но весь
мир недоступен моему взгляду, и я видел
только части мира. И все, что я видел, я
называл частями мира. И я наблюдал свойства
этих частей, и, наблюдая свойства частей, я
делал науку. Я понимал, что есть умные свойства частей и есть не умные свойства в тех
же частях. Я делил их и давал им имена. И в
зависимости от их свойств, части мира были
умные и не умные.
И были такие части мира, которые могли
думать. И эти части смотрели на другие части
и на меня. И все части были похожи друг на
друга, и я был похож на них.
Я говорил: части гром.
Части говорили: пук времени.
Я говорил: Я тоже часть трех поворотов.
Части отвечали: Мы же маленькие точки.
И вдруг я перестал видеть их, а потом и
другие части. И я испугался, что рухнет мир.
Но тут я понял, что я не вижу частей по
отдельности, а вижу все зараз. Сначала я думал, что это НИЧТО. Но потом понял, что это
мир, а то, что я видел раньше, был не мир.
И я всегда знал, что такое мир, но, что
я видел раньше, я не знаю и сейчас.
И когда части пропали, то их умные свойства перестали быть умными, и их неумные
свойства перестали быть неумными. И весь мир
перестал быть умным и неумным.
Но только я понял, что я вижу мир, как я
перестал его видеть. Я испугался, думая, что
мир рухнул. Но пока я так думал, я понял, что
если бы рухнул мир, то я бы так уже не думал. И я смотрел, ища мир, но не находил
его.
А потом и смотреть стало некуда.
Тогда я понял, что, покуда было куда
смотреть, вокруг меня был мир. А теперь
его нет. Есть только я.
А потом я понял, что я и есть мир.
Но мир - это не я.
Хотя в то же время я мир.
А мир не я.
А я мир.
А мир не я.
А я мир.
А мир не я.
А я мир.
И больше я ничего не думал.
Даниил Хармс
1930
Il mendo*
Mi dicevo che vedevo il mondo. Ma il mondo intero era inaccessibile al mio sguardo e vedevo solo parti del mondo. E tutto quello che vedevo, lo chiamavo parti del mondo. E osservavo le proprietà di queste parti e, osservando queste proprietà, facevo della scienza. Capivo che c'erano delle proprietà intelligibili delle parti e che c'erano, in quelle stesse parti, delle proprietà non intelligibili. Le suddividevo e davo loro dei nomi. E, in base alle loro proprietà, le parti del mondo erano intelligibili e non intelligibili.
E c'erano delle parti del mondo che potevano pensare. E queste parti guardavano le altre parti e guardavano me. E tutte le parti si assomigliavano l'una all'altra e io assomigliavo a loro.
Dicevo: parti tuono.
Le parti dicevano: mucchio di tempo.
Dicevo: sono anch'io parte di tre svolte.
Le parti rispondevano: e noi siamo piccoli punti. E di colpo smisi di vederle, e poi pure le altre parti. E temetti che il mondo sarebbe crollato.
Ma capii allora che non vedevo le parti singolarmente, ad una ad una, ma tutte in una volta. Dapprima pensai che questo fosse il NULLA. Ma poi capii che questo era il mondo e che quello che avevo visto prima non lo era.
Ho sempre saputo cosa fosse il mondo, ma quello che avevo visto prima ancora non lo so, cosa fosse.
E quando le parti sparirono, le loro proprietà intelligibili smisero di essere intelligibili, e le loro proprietà non intelligibili smisero di essere non intelligibili. E il mondo intero smise di essere intelligibile e non intelligibile.
Ma capii che vedevo il mondo solo quando smisi di vederlo. Mi prese una paura, pensando che il mondo fosse crollato. Ma mentre stavo pensando così, capii che se il mondo era crollato, non sarei stato in grado di pensare così. E guardai, cercando il mondo, ma senza trovarlo.
Poi non ci fu più nessun posto da guardare.
Capii allora che finché c'era un posto dove guardare, il mondo mi circondava. Ora non c'è più. Ci sono solo io.
Poi capii che ero io il mondo.
Ma il mondo - non sono io.
Per quanto, al contempo, io sono il mondo.
Ma il mondo non è me.
Ma io sono il mondo.
Ma il mondo non è me.
Ma io sono il mondo.
Ma il mondo non è me.
Ma io sono il mondo.
E non pensai più ad altro.
Daniil Charms
1930
* In russo мир è mondo e мы è noi. Charms, nel titolo, li ha fusi. Io ho fatto quello che ho potuto, ripiegando sul pronome singolare.
Sgònd mè u s putrébb, ès 'na gran masa, a gémm
ch’ u i è stè di sbai, la préima vólta, u s sa,
ch’u n n’à còulpa niséun, la è ’ndèda acsè,
e ’rcminzé tótt da capo.
Raffaello Baldini
Il mondo
Secondo me si potrebbe, essere tanti, ma tanti, diciamo
che ci sono stati degli sbagli, la prima volta, si sa,
che non ne ha colpa nessuno, è andata così,
e ricominciare tutto da capo.
Testo e versione italiana tratti da Ad nòta, cit.
Die Welt
Man könnt’, von mir aus, angenommen, es wären viele,
weil, man hat Fehler gemacht, das erste Mal, weiß man doch,
weil, es ist keiner schuld, war halt so
alles noch mal von vorn anfangen.
che non ci bado nemmeno più, io, me ne sono accorto
stamattina, per
caso, ho chiamato l’Elda,
che siamo rimasti, tutt'e due, sono fiorite.
Testo e versione italiana tratti da Raffaello Baldini, Ad nòta, cura e postfazione di Giuseppe Bellosi, Sugaman 2011 (diventato un ebook nel mese di dicembre 2012)
You should know that Hungarian names are like Chinese and Japanese, which means that we say our family names first. When speaking English, we usually switch them to help foreigners, but since here you're speaking Hungarian anything goes. If you have any doubts, try to repeat their names with a vexed look on your face, and the other person will help you straighten the question out.
Learn Hungarian - Level 1: Introduction to Hungarian Volume 1, Innovative Language Learning, 2011
È bene che tu sappia che i nomi ungheresi sono come quelli cinesi e giapponesi, il che significa che in ungherese diciamo prima il cognome. Quando parliamo inglese, di solito li invertiamo per aiutare gli stranieri, ma siccome qui stai parlando ungherese, va bene qualsiasi cosa. In caso di dubbio, cerca di ripetere i nomi con un'aria contrariata, e l'interlocutore ti aiuterà a sistemare la questione.
L'influenza
del pensiero cristiano nella storia europea è un dato di fatto, e quindi fuori discussione. Numerosi, tuttavia, volendo, sarebbero gli argomenti da sottoporre all'attenzione di coloro, altrettanto numerosi, che avrebbero voluto inserire nel preambolo della Costituzione europea il riferimento alle radici cristiane dell'Europa: un falso storico, oltre che un'ingerenza in un trattato laico, concepito per tutelare cittadini europei, e non cristiani europei. Omettendo i Papi, che svolgono il loro mestiere, e le gerarchie ecclesiastiche in generale, ne ricordo solo uno, Marcello Pera, che, in veste di Presidente del Senato, sentendosi in una vena particolarmente ispirata a principi liberali, ma non ad un altrettale respiro storico, si era spinto ad esprimere l'auspicio che vi si richiamassero le radici giudaico-cristiane.
Per dare supporto ad argomenti volti a liberare le radici
dell'Europa da qualsiasi monopolio, monocolore o bicolore che sia, soprattutto se posteriore alle origini della sua cultura, che fu molteplice e fu pagana, e, in seconda battuta, ma non di minore importanza, per dare a Lucrezio (e ad Epicuro e a Democrito) quel che è di
Lucrezio (e di Epicuro e di Democrito), basterebbe il ripristino di due versi due del De rerum natura.
Nel ricordare i due versi in questione, sarebbe idealmente mia intenzione resistere ad ogni inclinazione o deriva passibile di essere qualificata come anticlericale, anche se Odino sa quanto mi sia difficile. Passi quindi la chiesa di San Lorenzo in Miranda, insinuatasi nel corpo del tempio di Antonino e Faustina come un parassita. Passi l'appropriazione indebita di non poche feste pagane. Passi la promessa di una vita ultraterrena perché non ci si azzardi a sovvertire l'ordine delle cose in quella terrena. Passi l'accusa di deicidio rivolta agli ebrei. Passino le crociate. Passi l'imposizione del proprio credo a tutti i continenti. Passi il culto delle reliquie. Passino le indulgenze. Passino le braghe dipinte sui corpi del Giudizio michelangiolesco. Passino i processi a Giordano Bruno, Campanella e Galileo. Passino le stragi di eretici. Passi l'indice dei libri proibiti. Passino i roghi delle streghe. Passi tutta la Controriforma. Passi la mancata restituzione della Biblioteca Palatina a Heidelberg. Passi il Sillabo di Pio IX e passi pure la beatificazione di quest'ultimo. Passino le benedizioni dei cappellani militari a uomini mandati a morire e ad uccidere altri uomini. Passi il Concordato stipulato con l'Italia di Mussolini. Passino i silenzi durante il nazifascismo. Passi l'ospitalità concessa a Pavelić in Vaticano. Passino gli interventi nella politica italiana e non solo in quella. Passino le messe, i battesimi, i matrimoni ed i funerali celebrati a beneficio dei mafiosi. Passi la resistenza alla contraccezione e alla fecondazione artificiale e passino tutte le altre resistenze, inerzie, omissioni, silenzi, zeli ed ingerenze in territori, giurisdizioni e vite altrui*.
Passi (ma non si consegni all'oblio, se possibile) tutto, ma l'intervento, nel De rerum natura, della manina del cardinale Lambin, bibliotecario del re di Francia, che discretamente scambiò voluptas e voluntas nei versi 257 e 258 del libro II, intervento che ho potuto apprezzare con leggerissimo ritardo grazie a Heinz Wismann** (Penser entre les langues, Albin Michel, 2012) e alla sua conoscenza dei manoscritti, quello no, quello non dovrebbe passare.
256 libera per terras unde haec animantibus exstat,
257 unde est haec, inquam, fatis avolsa voluptas? 258 per quam progredimur quo ducit quemque voluntas
Lucrezio
Infine, supponendo che tutti i movimenti siano tra loro concatenati e che il
nuovo nasca sempre dal vecchio in un dato ordine, senza che gli elementi
primi, deviando, producano qualche inizio di movimento che scardini i
decreti del destino, impedendo che una causa segua un'altra
infinitamente, da dove proviene questo libero piacere accordato sulla
terra a tutti gli esseri animati, da dove proviene, dico, questo piacere
strappato ai destini, che ci fa procedere dove ci conduce la volontà?
256 libera per terras unde haec animantibus exstat, 257 unde est haec, inquam, fatis avolsa voluntas? 258 per quam progredimur quo ducit quemque voluptas
Lucrezio dopo l'intervento del cardinale Lambin
Infine, supponendo che tutti i movimenti siano tra loro concatenati e che il nuovo nasca sempre dal vecchio in un dato ordine, senza che gli elementi primi, deviando, producano qualche inizio di movimento che scardini i decreti del destino, impedendo che una causa segua un'altra infinitamente, da dove proviene questa libera volontà accordata sulla terra a tutti gli esseri animati, da dove proviene, dico, questa volontà strappata ai destini, che ci fa procedere dove ci conduce il piacere?
Il terrore della voluptas, specie se libera, condannata a finire nel corto circuito del piacere = peccato.
Porre rimedio ad un simile intervento è ormai impossibile, almeno a breve termine. Tuttavia, anche una revisione delle future edizioni e persino, fin d'ora, una minuscola doppia freccia disegnata a matita in calce ai due versi di Lucrezio nei testi già in circolazione sarebbe sempre un buono, per quanto tardivo, inizio.
______________________
*L'elenco non è esaustivo: per esempio, per limitarsi alla materia
trattata, l'elenco non comprende il furto di un manoscritto del
De rerum natura in Germania da parte del segretario della cancelleria papale, Poggio Bracciolini, nel 1417, e la censura, da parte dell'Inquisizione, dello stesso testo quando iniziò ad essere pubblicato a stampa (prima edizione: 1473, Brescia), particolarmente severa quando ne fu pubblicata la traduzione in italiano.
**Scrive Wismann, ed è un piacere riportarlo, tanto quanto lo è stato leggerlo: "come può l'uomo godere di una così grande libera voluttà (libera voluptas) quando è incatenato dalla volontà? Ora, nella logica dell'opera di Epicuro, è la volontà che è legata al meccanismo atomico, comandata in modo assoluto da questo. La correzione di Lambino è del tutto ideologica, nella misura in cui egli interpreta la voluttà come il peccato, e la libertà come la capacità del cristiano di liberarsi dalla costrizione.
Ma come si può parlare di una libera voluttà, e non di una libera volontà? Per Epicuro (e quindi per Lucrezio), mentre la volontà è interamente comandata dal meccanismo atomico, solo la voluttà è libera nella misura in cui essa è clinamen, vale a dire lo scarto minimo che appartiene alla riflessione, una deflessione che è in effetti una riflessione. E la voluttà non sta nel compimento degli atti che la volontà bruta ci impone; essa risiede in un piccolo scarto riflessivo rispetto a questa necessità di compiere gli atti dettati. Il vero godimento non sta nell'obbedire a degli imperativi fisici, quanto nello scostarsene un po', in modo da sapere quel che si fa, in un certo qual modo. È dunque quest'idea che permette subito di capire che il clinamen non funziona solamente a livello della caduta libera degli atomi in questa sorta di grande vuoto che è all'origine di tutte le cose, ma che opera anche nel mondo costituito dagli atomi. Si può dunque cominciare ad intravvedere in che cosa consista il piacere dell'amicizia, per esempio, precisamente fondato sul fatto di discostarsi, di non aderire a quello che è necessario, di essere in una forma di gratuità che trova conforto nella convinzione condivisa nello scarto. E il lathe biôsas, il fatto di non vivere questa vita visibile, che è la vita regolata della società, con tutti i suoi rituali, e la sua maniera di conformarsi alle aspettative. La vera voluttà è discostarsene e godere di una forma di convivenza originata dalla condivisione del sentimento di non essere completamente comandati. È questa, la piccola musica epicurea.
È tanto più espressivo, per come la vedo io, di centinaia di articoli che tentano di spiegare come, nell'orizzonte dell'epicureismo, si possa parlare di libera volontà. Questo non ha nessun senso. E quindi per far collimare la tradizione epicurea con la convinzione ideologica di una visione cristiana del mondo, il cardinale non poteva fare altro che sostituire una parola con l'altra."
4) che, se proprio deve essere esposta, lo sia nella sala delle prove,
5) che non si parli né di fronte alla bara né di fronte alla tomba, al più si legga la poesia A coloro che verranno,
6) che la veglia funebre, se la si desidera, sia tenuta solo da attori,
7) che non si suoni nessuna musica,
8) che la tomba venga posta nel giardino di Buckow o nel cimitero vicino al mio appartamento nella Chausseestraße e che rechi solo il nome Brecht su una pietra.
Die Sprache hat es unmißverständlich bedeutet, daß das Gedächtnis nicht ein Instrument für die Erkundung des Vergangenen ist, vielmehr das Medium. Es ist das Medium des Erlebten wie das Erdreich das Medium ist, in dem die alten Städte verschüttet liegen. Wer sich der eignen verschütteten Vergangenheit zu nähern trachtet, muß sich verhalten wie ein Mann, der gräbt. Vor allem darf er sich nicht scheuen, immer wieder auf einen und denselben Sachverhalt zurückzukommen - ihn ausstreuen wie man Erde ausstreut, ihn umzuwühlen, wie man Erdreich umwühlt. Denn ‘Sachverhalte’ sind nicht mehr als Schichten, die erst der sorgsamsten Durchforschung das ausliefern, um dessentwillen sich die Grabung lohnt. Die Bilder nämlich, welche, losgebrochen aus allen früheren Zusammenhängen, als Kostbarkeiten in den nüchternen Gemächern unserer späten Einsicht - wie Torsi der Galerie des Sammlers - stehen. Und gewiß ist’s nützlich, bei Grabungen nach Plänen vorzugehen. Doch ist unerläßlich der behutsame, tastende Spatenstich in’s dunkle Erdreich. Und der betrügt sich selber um das Beste, der nur das Inventar der Funde macht und nicht im heutigen Boden Ort und Stelle bezeichnen kann, an denen er das Alte aufbewahrt. So müssen wahrhafte Erinnerungen viel weniger berichtend verfahren als genau den Ort bezeichnen, an dem der Forscher ihrer habhaft wurde. Im strengen Sinne episch und rhapsodisch muß daher wirkliche Erinnerung ein Bild zugleich von dem der sich erinnert geben, wie ein guter archäologischer Bericht nicht nur die Schichten angeben muß, aus denen seine Fundobjekte stammen, sondern jene andern vor allem, welche vorher zu durchstoßen waren.
Walter Benjamin
Gesammelte Schriften, IV
Dissotterrare e ricordare
Il linguaggio ci ha fatto inequivocabilmente intendere che la memoria non è uno strumento per l'esplorazione del passato, ma piuttosto il luogo in cui si annida. È il substrato del vissuto come il suolo terrestre è il substrato in cui giacciono sepolte le città antiche. Chi si sforza di avvicinarsi al proprio passato sepolto deve comportarsi come un uomo che scava. Soprattutto non deve temere di continuare a ritornare ad un solo e medesimo fatto - di disperderlo come si disperde la terra, di rivoltarlo come si rivolta il terreno. Perché
i ‘fatti’ non sono altro che gli strati che consegnano alla ricerca più meticolosa solamente quello per cui vale la pena di scavare. Vale a dire le immagini, che, liberate di tutti i contesti precedenti, risiedono come oggetti preziosi nelle stanze sobrie della nostra comprensione successiva - come i torsi nella galleria del collezionista. E certo è utile, quando si scava, procedere secondo un piano, ma è indispensabile un colpo di vanga cauto, a tentoni, nella terra oscura.
E ci si priva del meglio, se si effettua solo l'inventario dei reperti e non si riesce a designare nel suolo attuale il luogo in cui esso custodisce l'antico. Così i veri ricordi devono procedere molto meno per resoconti che designare con precisione il luogo in cui il ricercatore se ne impossessa. Quindi bisogna che il ricordo reale dia al contempo nel senso più stretto epicamente e rapsodicamente un'immagine di colui che si ricorda, come una buona descrizione archeologica non deve solo restituire gli strati da cui originano i reperti, ma prima di tutto gli altri strati attraverso cui si è dovuto precedentemente penetrare.
*
Digging
Between my finger and my thumb
The squat pen rests; as snug as a gun.
Under my window a clean rasping sound
When the spade sinks into gravelly ground:
My father, digging. I look down
Till his straining rump among the flowerbeds
Bends low, comes up twenty years away
Stooping in rhythm through potato drills
Where he was digging.
The coarse boot nestled on the lug, the shaft
Against the inside knee was levered firmly.
He rooted out tall tops, buried the bright edge deep
To scatter new potatoes that we picked
Loving their cool hardness in our hands.
By God, the old man could handle a spade,
Just like his old man.
My grandfather could cut more turf in a day
Than any other man on Toner's bog.
Once I carried him milk in a bottle
Corked sloppily with paper. He straightened up
To drink it, then fell to right away
Nicking and slicing neatly, heaving sods
Over his shoulder, digging down and down
For the good turf. Digging.
The cold smell of potato mold, the squelch and slap
Of soggy peat, the curt cuts of an edge
Through living roots awaken in my head.
But I've no spade to follow men like them.
Between my finger and my thumb
The squat pen rests.
I'll dig with it.
Seamus Heaney, Death of a Naturalist, 1966
Scavando
Tra l'indice e il pollice poggia la mia penna tozza, come una pistola nella fondina.
Sotto la mia finestra un suono netto, stridulo all'affondare della vanga nella terra ghiaiosa: è mio padre che scava. E guardo giù finché la schiena sotto sforzo si piega tra le aiuole e si rialza sfasata di vent'anni chinandosi al ritmo con cui rivoltava patate nei solchi in cui stava scavando.
Il rude scarpone si adagiava sulla lama, facendo leva col manico all'interno del ginocchio, con gesto sicuro. Scovava le lunghe cime, infossava a fondo il bordo lucente per sparpagliare le patate novelle che raccoglievamo apprezzandone al tatto la fredda durezza.
Altro che, se sapeva maneggiare una vanga, proprio come suo padre. Mio nonno era in grado di estrarre più torba in un giorno di chiunque altro in tutta la torbiera di Toner. Una volta gli portai una bottiglia di latte tappata alla bell'e meglio con della carta. Dopo essersi raddrizzato per poterlo bere, si rimise subito ad incidere e a fendere con precisione la terra, gettandosi alle spalle zolle intere e continuando a scavare alla ricerca della torba buona. Scavando.
Mi ritornano in mente il freddo odore della terra da patate rimossa, la poltiglia e gli strati di torba umida, il rumore secco dei tagli inferti dal bordo della vanga che trapassava radici vive. Io, però, non ho vanghe per seguire le orme di uomini così.
Tra l'indice ed il pollice poggia la mia penna tozza. Io scaverò con questa.
*
Non so voi, ma se io scavo, quel che trovo sono sempre ricordi sghembi. Probabilmente so solo scavare di traverso e non ho abbastanza forza nelle braccia oppure continuo a scavare nella sola terra che io conosca, rossa e scarsa, nella quale, dopo il primo strato superficiale, si incontrano subito ammassi di rocce calcaree alternate a cavità, che costringono rispettivamente a procedere a zigzag e ad arrendersi di fronte ai vuoti. La scrittura mi aiuta a preservare alcuni ricordi, ma non la loro rispondenza al vero; la scrittura si limita a rivelarne, al più, la sghembitudine, in cui non sono che dei dettagli ad essere ingranditi a dismisura, compromettendo una corretta visione prospettica d'insieme. Come il ritratto di un volto cubista, che è molto realista, in fondo, in quanto fedele alle imperfezioni della memoria di una visione, che è fatta di carenze e di eccessi. A me pare.
Per non parlare di quando mi distraggo e scavo troppo vicino al burrone che sta in fondo al campo di segale. Se mi sbilancio, precipito e addio ricordi. Ché quando non si è più bambini, Holden non accorre in aiuto, ma resta immobile, se ci si sporge troppo sul precipizio, e ribadisce la propria inerzia nei confronti degli adulti con un deciso, beffardo gesto del braccio.
Parole e musica di Paul Misraki, orchestra di Ray Ventura et ses Collegiens, 1935
Allô ! Allô ! James ! Quelle nouvelle?
Absente depuis quinze jours
Au bout du fil je vous appelle
Que trouverai-je à mon retour?
Tout va très bien,
Madame la Marquise
Tout va très bien, tout va très bien
Pourtant il faut, il faut que l'on vous dise,
On déplore un tout petit rien,
Un incident, une bêtise
La mort de votre jument grise
Mais à part ça,
Madame la Marquise
Tout va très bien, tout va très bien
Allô ! Allô ! Martin! Quelle nouvelle ?
Ma jument grise morte aujourd'hui ?
Expliquez-moi, cocher fidèle
Comment cela s'est-il produit ?
Cela n'est rien,
Madame la Marquise
Cela n'est rien, tout va très bien.
Pourtant il faut, il faut que l'on vous dise
On déplore un tout petit rien
Elle a péri dans l'incendie
Qui détruisit vos écuries
Mais à part ça,
Madame la Marquise
Tout va très bien, tout va très bien
Allô ! Allô ! Pascal ! Quelle nouvelle ?
Mes écuries ont donc brûlé ?
Expliquez-moi, mon chef modèle
Comment cela s'est-il passé ?
Cela n'est rien,
Madame la Marquise
Cela n'est rien, tout va très bien
Pourtant il faut, il faut que l'on vous dise
On déplore un tout petit rien
Si l'écurie brûla, Madame
C'est que l'château était en flamme
Mais à part ça,
Madame la Marquise
Tout va très bien, tout va très bien
Allô ! Allô ! Lucas ! Quelle nouvelle ?
Notre château est donc détruit ?
Expliquez-moi, car je chancelle.
Comment cela s'est-il produit ?
Eh bien ! Voilà, Madame la Marquise
Apprenant qu'il était ruiné
A pein' fut-il rev'nu de sa surprise
Que m'sieu l'marquis s'est suicidé,
Et c'est en ramassant la pell'
Qu'il renversa tout's les chandell's
Mettant le feu à tout l'château
Qui s'consuma de bas en haut
Le vent soufflant sur l'incendie
Le propagea sur l'écurie
Et c'est ainsi qu'en un moment
On vit périr votre jument
Mais à part ça,
Madame la Marquise
Tout va très bien, tout va très bien
Pronto? Pronto? James, quali nuove?
La chiamo al telefono
Dopo quindici giorni d'assenza
Cosa troverò al mio ritorno?
Va tutto benissimo, Signora Marchesa
Va tutto benissimo, va tutto benissimo
Tuttavia bisogna, bisogna che Le diciamo,
Lamentiamo una cosetta da niente,
Un incidente, una sciocchezza
La morte della Sua giumenta grigia
Ma a parte questo, Signora Marchesa
Va tutto benissimo, va tutto benissimo
Pronto? Pronto? Martin, quali nuove?
La mia giumenta grigia morta oggi?
Mi spieghi, fedele cocchiere
Com'è successo?
Non è nulla, Signora Marchesa
Non è nulla, va tutto benissimo
Tuttavia bisogna, bisogna che Le diciamo
Lamentiamo una cosetta da niente
È morta nell'incendio
Che ha distrutto le Sue scuderie
Ma a parte questo, Signora Marchesa
Va tutto benissimo, va tutto benissimo
Pronto? Pronto? Pascal, quali nuove?
Le mie scuderie sono dunque andate a fuoco?
Mi spieghi, capo modello
Com'è successo?
Non è nulla, Signora Marchesa
Non è nulla, va tutto benissimo
Tuttavia bisogna, bisogna che Le diciamo
Lamentiamo una cosetta da niente
Se la scuderia è andata a fuoco, Signora
È perché il castello era in fiamme
Ma a parte questo, Signora Marchesa
Va tutto benissimo, va tutto benissimo
Pronto? Pronto? Lucas!
Quindi il nostro castello è distrutto?
Mi spieghi, perché barcollo
Com'è successo?
Ebbene! Ecco, Signora Marchesa
Venuto a sapere che era rovinato
Appena si è ripreso dalla sorpresa
Il Signor Marchese si è suicidato
Ed è cadendo a terra
Che ha rovesciato tutte le candele
Mandando a fuoco tutto il castello
Che si è consumato tutto
Il vento, soffiando sull'incendio
Lo ha propagato alla scuderia
Ed è così che in un attimo
Abbiamo visto morire la Sua giumenta
Ma a parte questo, Signora Marchesa
Va tutto benissimo, va tutto benissimo
Seminario di 2 giorni: 170 partecipanti, 28 nazionalità, una ventina di relatori, nessuna finestra apribile. Ho le gambe integralmente coperte alla vista altrui da una serie di pannelli di legno. Ne approfitto per muoverle di continuo inosservata e cercare così di attenuare una sindrome a cui solo da poco tempo posso attribuire un nome in italiano, che in realtà ha tutta l'aria di essere una traduzione dall'inglese: sindrome delle gambe senza riposo, anche se io e mio padre ne soffriamo ben prima di questo conio, cui preferiamo senz'altro un'altra locuzione, quando compare, annunciando un dialettale me rosiga le gambe. Proprio mentre più acuto si fa il rosigamento, un relatore si mette a commentare una schermata in cui ha diligentemente elencato la parola "nuovo" in molte lingue, tutte europee, dal greco all'italiano allo spagnolo al francese all'inglese al tedesco al russo: gli piace evidenziarne la prossimità, la similiarità, la somiglianza. Che sputo, l'Europa, penso, e rivolgo automaticamente lo sguardo verso i 4 partecipanti cinesi e gli altrettanti turchi: incerti se distendere i muscoli in orizzontale in un sorriso largo o se contrarli in verticale, in un'espressione di stupore, si risolvono a restare interdetti, i primi appena dopo essersi mentalmente ripetuti, credo, 新 (xīn), i secondi yeni. Penso allo sputo in cui sono nata, che Magris, in modo più elegante, ma non più originale, ha chiamato microcosmo, e mi ritorna alla mente una parola vecchia, molto vecchia, che non uso mai, eppure esiste e resiste da qualche parte dentro di me. Non faccio liste, non serve, per arrivare veloce alla conclusione, azzardata, che il termine più adatto, semanticamente e foneticamente più adatto, a definire uno spilorcio, un avaro, un taccagno, un tirchio, un braccino insomma, è caìa. Dove il risparmio è assoluto, ben più estremo che nei suoi sinonimi tirado o tirà, pedocioso e spinaza, e tocca persino le consonanti, l'unica consonante sopravvissuta alla lesina provvedendo ad emanare l'indispensabile nota di secchezza ed asperità.
Der hat noch niemals eine Speise erfahren, nie eine Speise durchgemacht, der immer Maß mit ihr hielt. So lernt man allenfalls den
Genuß an ihr, nie aber die Gier nach ihr kennen, den Abweg von
der ebenen Straße des Appetits, der in den Urwald des Fraßes
führt. Im Fraße nämlich kommen die beiden zusammen: die Maßlosigkeit des Verlangens und die Gleichförmigkeit dessen, woran
es sich stillt. Fressen, das meint vor allem: Eines, mit Stumpf und
Stiel. Kein Zweifel, daß es tiefer ins Vertilgte hineinlangt als der
Genuß. So wenn man in die Mortadella hineinbeißt wie in ein
Brot, in die Melone sich hineinwühhlt wie in ein Kissen, Kaviar
aus knisterndem Papier schleckt und über einer Kugel von Edamer
Käse alles, was sonst auf Erden eßbar ist, einfach vergißt. - Wie ich
das zum ersten Male erfuhr? Es war vor einer der schwersten
Entscheidungen. Ein Brief war einzuwerfen oder zu zerreißen.
Seit zwei Tagen trug ich ihn bei mir, seit einigen Stunden aber,
ohne daran zu denken. Denn mit der lärmenden Kleinbahn war
ich durch die sonnenzerfressene Landschaft nach Secondigliano
hinauf gefahren. Feierlich lag das Dorf in der Alltagsstille. Einzige
Spur vom verrauschten Sonntag die Stangen, an denen leuchtende
Räder geschwungen, Raketenkreuze sich entzündet hatten. Nun
standen sie nackt da. Einige trugen auf halber Höhe ein Schild mit
der Figur eines Heiligen aus Neapel oder der eines Tiers. Weiber
saßen in den geöffneten Scheuern und klaubten Mais. Ich schlenderte betäubt meines Weges, da sah ich im Schatten einen Karren
mit Feigen stehen. Es war Müßiggang, daß ich drauf zuging, Verschwendung, daß ich für wenige Soldi mir ein halbes Pfund geben
ließ. Die Frau wog reichlich. Als aber die schwarzen, blauen, hellgrünen, violetten und braunen Früchte auf der Schale der Handwaage lagen, zeigte es sich, daß sie kein Papier zum Einschlagen
hatte. Die Hausfrauen von Secondigliano bringen ihre Gefäße
mit und auf Globetrotter war sie nicht eingerichtet. Ich aber
schämte mich, die Früchte im Stich zu lassen. Und so ging ich,
Feigen in den Hosentaschen und im Jackett, Feigen in beiden vor
mich hingestreckten Händen, Feigen im Munde, von dannen. Ich
konnte jetzt mit Essen nicht aufhören, mußte versuchen, so schnell wie möglich der Masse von drallen Früchten, die mich befallen
hatten, mich zu erwehren. Aber das war kein Essen mehr, eher
ein Bad, so drang das harzige Aroma durch meine Sachen, so
haftete es an meinen Händen, so schwangerte es die Luft, durch
die ich meine Last vor mich hintrug. Und dann kam die Paßhöhe des Geschmacks, auf der, wenn Überdruß und Ekel, die letzten Kehren, bezwungen sind, der Ausblick in eine ungeahnte
Gaumenlandschaft sich öffnet: eine fade, schwellenlose, grünliche
Flut der Gier, die von nichts mehr weiß als vom strähnigen, faserigen Wogen des offenen Fruchtfleisches, die restlose Verwandlung von Genuß in Gewohnheit, von Gewohnheit in Laster. Haß
gegen diese Feigen stieg in mir auf, ich hatte es eilig aufzuräumen,
frei zu werden, all dies Strotzende, Platzende von mir abzutun,
ich aß, um es zu vernichten. Der Biß hatte seinen ältesten Willen
wiedergefunden. Als ich die letzte Feige vom Grund meiner
Tasche losriß, klebte an ihr der Brief. Sein Schicksal war besiegelt, auch er mußte der großen Reinigung zum Opfer fallen; ich
nahm ihn und zerriß ihn in tausend Stücke.
Walter Benjamin
Gesammelte Schriften, IV
Fichi freschi
Non ha mai conosciuto un cibo, né lo ha mai gustato fino in fondo, chi si sia sempre attenuto a moderazione. Così se ne può conoscere tutt'al più il sapore, ma mai il provarne avidità, il discostarsi dalla strada piatta dell'appetito, che conduce alla foresta primordiale del pasto degli animali. Quando gli animali mangiano, infatti, le due cose si combinano: la dismisura della voglia e l'uniformità di quello di cui si placa. Divorare vuol dire, prima di tutto, spazzolare tutto, senza lasciare alcun resto. Non c'è dubbio che si tratta di eliminare, più che di assaporare. Come quando si addenta la mortadella come se fosse pane, si affonda in un melone come se fosse un cuscino, si lecca il caviale dalla carta crepitante, si dimentica semplicemente, dinanzi ad una forma di Edamer, tutto quello che altrimenti c'è di commestibile sulla terra. Come l'ho avvertito la prima volta? Mi capitò prima di una delle decisioni più difficili. C'era una lettera da imbucare o da strappare. Era due giorni che la portavo con me, da alcune ore, però, senza pensarci. Perché, con il chiassoso treno su binari a scartamento ridotto, attraverso un paesaggio divorato dal sole, avevo raggiunto Secondigliano. Nonostante il giorno festivo, il paese era sprofondato nella calma di un qualsiasi giorno infrasettimanale. Unica traccia della caciara della domenica, i pali ai quali avevano oscillato delle ruote luminose, erano state accese delle croci fatte di razzi. Ora erano lì, nudi. Alcuni sostenevano a metà altezza un cartello raffigurante un santo napoletano o un animale. Donne sedute nei fienili aperti, sgranando mais. Stavo gironzolando inebetito per la mia strada quando vidi stagliarsi, all'ombra, un carretto con dei fichi. Fu l'ozio, ad attrarmi, e la tendenza allo sperpero, a farmene dare un quarto di chilo per pochi soldi. La donna ne pesò ben di più. Dopo però che ebbe posato i frutti - neri, blu, verde chiaro, violetti e bruni - sul piatto della bilancia a mano, saltò fuori che non aveva carta per avvolgerli. Le casalinghe di Secondigliano portano con sé i loro recipienti e lei non era preparata ad un globetrotter. Io però mi vergognai di lasciare i frutti in asso. E così me ne andai via da lì con fichi nelle tasche dei pantaloni e nella giacca, fichi in tutte e due le mani protese, fichi in bocca. A quel punto non fui più in grado di smettere di mangiare, dovetti tentare di difendermi il più rapidamente possibile dalla massa dei frutti rotondeggianti che mi avevano assalito. Ma non si trattava più di un mangiare, quanto piuttosto di un bagnarsi, tanto l'aroma appiccicoso era penetrato attraverso le mie cose, aveva aderito alle mani ed ingravidato l'aria attraverso cui stavo portando il mio carico dinanzi a me. E poi arrivò il vertice del gusto, all'altezza del passo di montagna dove, superati nausea e voltastomaco, gli ultimi tornanti, la vista si spalancava in un inaspettato panorama del palato: un flusso insipido, piatto, verdastro di voracità che non avverte più altro se non il fluttuare a ciocche, a fibre, della polpa aperta del frutto, la metamorfosi completa del piacere in abitudine, dell'abitudine in vizio. Mi montò un odio nei confronti di quei fichi, dovevo improvvisamente sbarazzarmene, liberarmene, togliere di mezzo tutta quella materia debordante, in procinto di scoppiare, e la mangiai per annientarla. Il morso aveva ritrovato la sua volontà ancestrale. Quando staccai l'ultimo fico dal fondo della mia tasca, gli si appiccicò la lettera. Il suo destino era segnato, anche lei doveva cadere vittima del grande repulisti: la presi e la strappai in mille pezzi.
Scritto a Capri nell'estate del 1924, mi appare come un denso concentrato di contraddizioni, pulsioni contrastanti e scarti (tutte cose positive), nel loro stare in bilico tra voglia, desiderio, appagamento e nausea, tra creazione e annientamento, che tuttavia si risolvono in un percorso circolare perfetto: una lettera avvolta nel mistero, destinata a fissare in forma di parole scritte delle considerazioni e dei ricordi, molto probabilmente legati, direttamente o indirettamente, alla sua esperienza di quell'estate caprese, indirizzata ad un amico ignoto, lettera che viene strappata e non giungerà mai a destinazione, una memoria scritta che soccombe in favore del ricordo del vissuto di un istinto primordiale, che resta invece inciso in profondità, appiccicoso come un fico, nella memoria personale di Benjamin, e in quella dei suoi lettori, grazie ad una sua seconda scrittura su carta, per fortuna non strappata e giunta a pubblicazione, sulla Frankfurter Zeitung, nel 1930.
if there is an error to be made why not make it now. why wait for that unguarded moment when you have made a wrong move, decision. an act of consequence. make errors when it doesn't matter. then when it is crucial you will not drop dead of the shock of failure. the shame. you will hardly even notice any change in the circumstances surrounding you. what a democracy of effect.
two
when you sit down at your desk make sure there is only as much cleared space as is absolutely necessary for you to work on. keep those piles of diaries and notebooks, newspaper clippings, scribblers on your right and left sides; keep the dusty bottles of ink, clusters of old pens and pencils, pools of paper clips, staples, gold and cloisonne pens, special ones that you never use, in front of you. a bare desk is too shocking a reminder.
three
we rush from no-parking zones, across the road against the red lights, from crowded buses, to the wall of black post office boxes, and thrust our keys into numbered keyholes, holding our breaths until we read the omens the sight of each envelope suggests. we tremble, we sigh at the array in our hands, the glossolalia of correspondence. as we relock these boxes we turn quickly away. leaving behind a wall of tiny doors, articulate in their silences. like any wall of caskets at one of the city's crematoriums.
four
today the tv is happy talking to itself. it doesn't need me to talk to. i just turn it on. sit down somewhere else, and leave it to its own devices. i've trained mine to be independent.
five
look at those people running from the ice cream parlour to circle the person in a state of cardiac arrest by the side of the road. see how they hold their ice creams like torches as they watch the ambulance officers at work. how the ice cream runs down their palms and across their wrists like babies' bracelets. and they don't even notice.
six
see that pile of books sprawled across the bed like an odalisque. you are forced to sleep on the shelf.
seven
imagine dying with a shopping list in your hand.
eight
last week i wrote to molly dye to discover how to keep cockroaches out of light switches; this week i'm writing to discover how to keep politicians out of the letterbox.
nine
in the last year of my life i decided to take punctuation seriously.
ten
i thought the rain was being operatic until i looked out of the window and saw a woman trying to use her voice as an umbrella.
eleven
for over a year the blue plastic bag lay on the branch of the tree. window cleaners ascending the sky on silver ladders ignored it. tree pruners worked round it. giant white blossoms came and went on the branches above it. winds and storms lashed it. but still it lay in the same place. rather like someone recovering in hospital after major surgery. no one dared remove it. perhaps we were really afraid of it. then one day it had gone. and in its place was a pair of black underpants.
twelve
looking into the vegetable soup i saw my own future.
thirteen
he spoke of a body of knowledge, how he was developing one, trying to get it down on hard disc; but when he looked at his own soft body in the shopping centre's mirrors he didn't know it at all, didn't know it from a bar of soap. all the bodies passing by looked like strangers, foreign bodies. a musak voice whispered into his left ear: 'you shouldn't distract yourself by looking in mirrors'. 'i know' he nodded minutely, trying to keep his head still so that body of knowledge wouldn't rupture, have a seizure. he sensed muggers in the ether.
joanne burns
quisquilie
uno
se c'è un errore da commettere, perché non commetterlo adesso. perché aspettare quell'attimo di incautela in cui si effettua una mossa sbagliata o si prende una decisione azzardata. un atto di conseguenza. si commettano errori quando non importa. così, quando il momento sarà cruciale, non si stramazzerà per il trauma da fallimento. per la vergogna. ci si accorgerà a malapena del cambiamento delle circostanze intorno. che effetto democratico.
due
quando ci si siede alla scrivania, ci si assicuri di avere lo stretto spazio libero necessario per lavorare. si mantengano alla propria destra e alla propria sinistra le solite pile di diari e blocchi, ritagli di giornale e scarabocchi; si mantengano di fronte a sé le boccette di inchiostro coperte di polvere, mucchi di penne e matite vecchie, file di graffette, punti metallici, penne d'oro e smaltate, quelle speciali che non si usano mai. una scrivania sgombra è un promemoria troppo traumatizzante.
tre
ci affrettiamo ad attraversare strade partendo da divieti di sosta fino a fermarci al rosso dei semafori, da autobus affollati alla parete di cassette di sicurezza postali nere, ed infiliamo le nostre chiavi in serrature numerate, trattenendo il respiro finché non leggiamo i segni premonitori che la vista della busta ci suggerisce. tremiamo, sospiriamo, soppesando il plico con la mano, la glossolalia della corrispondenza. richiudendo le cassette, ce ne allontaniamo a passi rapidi. lasciando dietro di noi una parete di porticine, articolate nei loro silenzi. come qualsiasi parete di bare nei crematori della nostra città.
quattro
oggi la tv è felice mentre parla con se stessa. non ha bisogno che mi metta a parlarle. la accendo e basta. siediti da qualche altra parte e lasciala ai suoi dispositivi. ho addestrato la mia ad essere indipendente.
cinque
guarda quella gente che dalla gelateria si precipita a circondare la persona in stato di arresto cardiaco a lato della strada. guarda come tengono i loro gelati a mo' di torce, mentre guardano gli addetti dell'ambulanza al lavoro. come i gelati scorrono dai palmi e avvinghiano i polsi come braccialetti da neonati. e senza rendersene nemmeno conto.
sei
vedi quella pila di libri abbandonata sul letto come un'odalisca. ti tocca dormire sullo scaffale.
sette
immagina di morire con la lista della spesa in mano.
otto
la scorsa settimana ho scritto a donna letizia per scoprire come tenere gli scarafaggi lontani dagli interruttori della luce: questa settimana le sto scrivendo per scoprire come tenere i politici lontani dalla cassetta delle lettere.
nove
nell'ultimo anno della mia vita ho deciso di prendere la punteggiatura sul serio.
dieci
pensavo che la pioggia fosse lirica finché non ho guardato fuori dalla finestra e ho visto una donna che cercava di usare la propria voce come ombrello.
undici
per più di un anno il sacchetto di plastica blu rimase sul ramo dell'albero. dei lavavetri in ascesa nel cielo su scale d'argento lo ignorarono. dei potatori d'alberi ci lavorarono attorno. dei
fiori bianchi giganteschi comparvero e scomparvero sui rami sopra di lui. venti e tempeste lo rizzarono come una vela. eppure rimase nello stesso posto. come qualcuno che si stesse ristabilendo dopo un importante intervento chirurgico. nessuno osò toglierlo di lì. forse ne avevamo davvero paura. poi, un giorno, sparì. e al suo posto apparve un paio di mutande nere.
dodici
guardando dentro la minestra di verdure, ho visto il mio futuro.
tredici
parlò di un corpo di conoscenze, del modo in cui ne stava sviluppando uno, tentando di fissarlo su un disco rigido; ma quando guardò il proprio corpo molle negli specchi del centro commerciale, non lo riconobbe per niente, non era in grado di distinguerlo da una saponetta. tutti i corpi dei passanti sembravano stranieri, corpi estranei. una voce da musica da dentista si mise a sussurrare nel suo orecchio sinistro: 'non dovresti farti distrarre dalla visione degli specchi'. 'lo so', fece con un cenno minuzioso del capo,
cercando di mantenere immobile la testa in modo da non far fuoriuscire quel corpo di conoscenze, da non farselo sottrarre. avvertì l'odore di rapinatori nell'etere.