martedì 14 dicembre 2010

101 ragioni per imparare l'ungherese - 16

Anche solo per poter sperare di riuscire, forse, un giorno, non dico a tradurre, ma almeno a tentare di spiegare con un moderato uso delle mani, questo:

Di alcune moderate riforme che vorrei vedere nell'assetto della mia patria avanti di morire. (...) Vedere la gente fremere d’amore intellettuale di Dio, lavorare con piacere, fabbricare giocattoli appassionanti, sciare ardita sulle coste dei monti, nuotare a farfalla lungo le coste dei mari; sentirla cantare inni di elementare grazia e potenza, avendo per inno nazionale un "Inno alla mortalità" in cui si esprimesse la rassegnazione a questo sgradevole aspetto della vita, e la contentezza di potere intanto produrre affetti e odi sereni, begli edifici, dolci macchine lisce come l’olio, istituti severi e soavi, e quell’onestà nel fare e nel non fare che (quando c’è) cancella la paura e perfino il rimpianto di non sopravvivere per sempre. Che importa, quando si battezza un bambino o una bambina, il pensiero di ciò che in realtà li aspetta, ciò che vi è di assolutamente sicuro nel loro destino? Si potrebbe invece compiacersi della bella festa, coi discorsi e le torte, sapendo assicurate (nella patria che vorrei vedere) tali cure agli infanti orfani da far apparire più avventurata che infausta l'eventuale scomparsa dei genitori, anche simultanea, all'indomani di quel battesimo.

Luigi Meneghello, Le carte: anni Settanta, Rizzoli, 2001

E (potendo sperare) anche questo:

Durante mucho tiempo se dijo - yo lo dije - que la única patria de un escritor era su lengua. Ya no lo creo. Tampoco creo que mi patria sea mi literatura ni la literatura. Más bien diría que mi patria es mi vida, es decir, que mi patria es algo frágil y débil e insignificante. También podría decir, siguiendo esta línea, que estoy exiliado de mi patria y que vivo en la patria de los otros, como emigrante sin papeles, y que procuro no molestar ni estar demasiado tiempo en un lugar.

Roberto Bolaño, febrero 2003

E (en ayant le droit d'espérer) pure questo:

Ich war kein Stein keine Wolke
keine Glocke und keine Laute
geschlagen von einem Engel oder von einem Teufel
Ich war von Anfang an nichts als ein Mensch
und ich will auch nicht etwas anderes sein

Erich Fried, Lebenslauf

Con la certezza che attendono pazientemente di essere tradotti in italiano moltissimi testi ungheresi di cui al momento, ignorandoli, crediamo di poter fare a meno.

Passate un buon dicembre.

5 commenti:

  1. Infatti, per la traduzione di questo non basta un ungherese: ci serve uno che non soltanto lo possa esprimere in ungherese, ma lo possa anche rappresentare in modo autentico nella sua propria persona.

    La trilogia “Ábel” del transilvano Áron Tamási, una novella di chiave degli anni trenta, ha, fra l’altro, questa conclusione: “Perché siamo nel mondo? Affinché stiamo a casa in esso.” E’ questa ostinata ricerca di essere a casa nel mondo – non soltanto nella propria terra natale, ma in qualsiasi parte del di esso – che penetra la letteratura ungherese e dei paesi d’intorno, da Hrabal tra Neagu fino a Andrić. E’ questo che il povero Stasiuk cerca, in vano. E’ questo che dovrei tradurre se volessi presentare l’essenza delle nostre letterature. Ed è questo che faccio sempre, quando scrivo e quando solo vivo quello di cui più tardi scriverò.

    Se Bolaño dice che la sua patria è la sua vita, uno scrittore delle nostre parti direbbe che la sua patria è la bolla in cui vive e che porta con sé dappertutto dove va come la verme avanza nel formaggio.

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  2. Ezt nem lehet otthon a világban lenni. Talán mivel a világ így van.
    Azonban a féreg a sajtban jó.

    (Chiedo venia chiedo venia chiedo venia.)

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  3. BRAVISSIMA!!!

    “Zu mundu ergai.”

    Sì, nel mondo non si può essere a casa. Ma negli scrittori delle nostre parti spesso si scopre uno sforzo ostinato ed affascinante di riconvertirlo in casa, insieme al sobrio – a volte ironico, a volte amaro – riconoscimento dell’impossibilità dello stesso.

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  4. Neagu e Tamási non li conosco ancora.

    Gli scrittori dei luoghi dove sono nata io, che hanno nomi come Slataper, Stuparich, Svevo (Schmitz), Bazlen, Voghera, Rosso, Pahor, Magris, Rumiz e, tra i poeti, nomi come Saba (Poli), Giotti, Cergoly, Kosovel, sono scrittori che, pur appartenendo ad un minuscolo lembo di terra, non è facile accomunare. Tra loro vi è chi si è sentito attratto principalmente dalla cultura italiana, chi principalmente da quella tedesca, chi da quella slava e chi ha cercato di farsi portavoce insieme dell'una e dell'altra, senza tralasciare chi ha coltivato (Voghera) e chi ha invece sotterrato le proprie radici ebraiche (Saba, Svevo). Mi pare però di poter dire che si sono sentiti tutti a casa, ma in una casa microscopica, di cui non sono mai riusciti a definire con precisione le pareti, sottili, mobili e fluttuanti, circondate com'erano e come sono da identità ben definite (l'italiana e la slava, un tempo anche la tedesca). Anche loro hanno affrontato e riconosciuto questa impossibilità a volte con amarezza, a volte con ironia. Ma quello che ha sempre provocato in loro la sconsolazione o il sorriso, vale a dire la difficoltà di affermare un'identità dai contorni sfumati, è stata esattamente la loro fortuna. Non è una caratteristica confinata alla letteratura, tra l'altro: il triestino, rispetto ai vicini sloveni e croati, si sente italiano, ma rispetto al resto dell'Italia si sente a parte, tanto che l'Italia, per il triestino di lingua italiana, comincia all'estrema periferia occidentale della provincia di Trieste, in corrispondenza delle foci dell'Isonzo (ha integrato nella mente i confini di un territorio che non esiste più dal 1954, quello del Territorio Libero di Trieste - lo puoi trovare su Wikipedia, se ti interessa). Diverso nelle aspirazioni, ma non troppo nei risultati, è il caso del triestino di lingua slovena: aspirerebbe ad avere come centro di attrazione del proprio mondo culturale e ideale Ljubljana, ma si ritrova a parlare uno sloveno triestino (e con lo stesso accento del triestino italiano, cosa che a me piace assai). Nonostante si siano già versati fiumi di inchiostro sull'identità di quella frontiera e nonostante tutta la retorica con cui si tende a farlo, magari un giorno provo a dedicarci qualche riga, nel modo più sobrio possibile.

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  5. Ho scritto Isonzo (uno dei tre fiumi di Ungaretti :-)), ma intendevo Timavo.

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