domenica 12 dicembre 2010

Venerdì 12 dicembre ("Un passo alla volta")

Se avessi potuto, avrei dato la parola solo ai sopravvissuti e ai parenti delle vittime ed escluso completamente il resto, visti i risultati prodotti dalle attività di ricerca, ufficiali e non. Questo spiega un po' la scelta dei pezzi.
"Un passo alla volta" sono le parole di un partigiano nel film di Pasolini e Lotta Continua ("Ma che repubblica abbiamo fatto? Mi dicevo fra me e me. Loro mi rispondevano: un passo alla volta, un passo alla volta, un passo alla volta. Per me dei passi son stati fatti, ma sempre nello stesso posto, fino a che per conto mio ci deve essere un buco di 2 metri"). Se si fosse estrapolato il cammino che avrebbe compiuto il Paese da allora a quella cadenza, probabilmente oggi non ci sarebbe proprio niente di cui stupirsi.

*

Saranno pressappoco le cinque del pomeriggio di venerdì 12 dicembre 1969, quando un mio giovane amico mi fa un'ansiosa telefonata. "Corri subito in piazza Fontana, dev'essere successo qualcosa. Chi dice lo scoppio di una caldaia, chi dice una bomba. Ci sono molti morti". Subito un taxi, che però va adagissimo: sono le nervose giornate che precedono il Natale, le strade sono intasate dalla gente che va e viene dai negozi per le commissioni. E le vetrine di via Monte Napoleone non mi erano mai sembrate così belle e allegre, quasi tutte rosse a festoni d'oro o d'oro a festoni rossi.
In piazza Fontana, tutto grigio e affumicato l'edificio della Banca dell'Agricoltura, grigio e nero anche il pianoterra su cui corrono però rivoli di sangue; e, andando avanti, spinta da una curiosità quasi morbosa, arrivo al gradino davanti alla banca: piedi umidi di colpo, mi entra il sangue nelle scarpe. Cola sangue dappertutto, dai camici degli infermieri, dalle facce dei feriti meno gravi che vanno a farsi medicare nella farmacia lì accanto, colano gocce vermiglie anche dalle ultime barelle inghiottite dalle autoambulanze.
Dalla sala portano fuori dei carabinieri svenuti, esce stravolto il sindaco Aniasi, terreo l'arcivescovo, entrano i primi parenti a tentar di riconoscere le salme e tornano fuori piegati in due con la testa fra le mani, vengono i funzionari della Scientifica, della Politica, gli artificieri. È stata una bomba: sedici sono i morti, ottantotto i feriti, di cui alcuni gravi e altri resteranno mutilati. Cominciano anche i racconti degli scampati: la guerra, sì, come la guerra, il caos, il massacro, il macello, e odor di guerra dice chi l'ha fatta, di sangue caldo e di polvere da sparo, di carne bruciata e di zolfo. Io quell'odore non lo sento più, ma mi bruciano gli occhi in modo innaturale: piango.
Era giorno di mercato; piena la sala di fittavoli, bergamini e malghesi, coltivatori diretti, commercianti di mangimi o granaglie. Erano dentro ancora molti a quell'ora, quasi un centinaio nel salone, che per tradizione e per agevolare gli agricoltori il venerdì resta aperto oltre il solito orario.
Sono le sedici e trentasette minuti, ed ecco il rombo immane che scuote l'edificio, e che sarà poi paragonato al tuono o al maremoto; gran fumata nera e subito alte le fiamme, come una nuvola rossa che acceca, chi è sbattuto per terra, chi è trasportato per aria, chi davvero vola e viene scagliato oltre la porta centrale, a un passo dal tram numero 13 che, nel suo percorso a pochi metri dalla banca, a quell'ora è investito come da un brivido immenso, con un balzo si ferma e tra grida altissime si vuota di colpo.
Nello stesso tempo all'interno della banca cadono tutti i vetri e piovono a quintali i calcinacci, si staccano e precipitano gli infissi, si disintegra il tavolo centrale, sono per aria sedie, lastre di marmo, imposte che vanno poi ad abbattersi sui corpi a terra: così ogni scheggia, mobile o frammento di mobile si trasforma in proiettile.
Un uomo schizzato di sangue, indenne, ma visibilmente sotto shock ha bisogno di raccontare: a un certo momento qualcosa di oscuro e di pesante viene lanciato in uno strano volo disordinato sopra il bancone degli impiegati, e sul corridoio di sinistra. "E vuol sapere cos'era successo?" mi chiede, "cos'erano quei grossi oggetti volanti? Erano quattro corpi (ha in mente il Giudizio Universale, quello di Roma?) che volavano sotto la cupola, con pezzi di vestiti che pendevano da tutte le parti, e erano già tutti mutilati e bruciacchiati, e con un rumore tremendo sono andati a cadere in direzioni oppose, tre fra scrivania e scrivania, e un altro fuori dal salone, vicino all'ascensore. Ho detto il Giudizio Universale? Mi correggo, l'Inferno".
Un racconto segue l'altro e sono tutti apocalittici. Con sorpresa mi vedo venire incontro Mario Scialoja, un collega dell'"Espresso", che, di passaggio a Milano, per caso era capitato in piazza Fontana cinque minuti dopo lo scoppio. È completamente stravolto: era infatti entrato nella banca insieme ai pompieri per aiutare a soccorrere chi ancora poteva esser soccorso. Tra mille svariati relitti e detriti, pezzi di scarpe o borse (tra le scarpe alcune col piede dentro), e non solo brandelli di vestiti, ma brandelli di corpi, ho visto un pompiere raccogliere una mano, un prete aiutare un contadino a alzarsi prendendolo per il braccio (ma il braccio gli era venuto dietro tutto intero); lui stesso si era imbattuto in un tronco bruciacchiato con via le gambe e un braccio.
Eppure, forse per l'attrazione che l'orrore alle volte esercita, è difficile staccarsi da un posto così: saranno le solite frasi degli ultimi arrivati a farmi venir voglia di scappare: "Qui ci vuole il coprifuoco". "Mi creda, non sono mai stato così contento di aver mandato mio figlio un mese fa a Fiesole, alla riunione del Fronte Nazionale. È una santa organizzazione paramilitare dell'ex comandante della Mas, Valerio Borghese, che ha per scopo l'azione rischiosa in tempi di emergenza". Commenti di questo tipo si infittiscono nella serata.
Si saprà il giorno dopo che una seconda bomba è stata trovata intatta, chiusa in una borsa nera, ai piedi di uno dei dieci ascensori della Banca Commerciale in piazza della Scala. La polizia milanese, auspice e presente quel bizzarro duetto formato dal procuratore generale De Peppo e dal pm Pasquale Carcasio, decide di far brillare l'ordigno che esplode sotto una quantità di sacchetti di sabbia, insieme alla cassetta che lo contiene. Vengono così distrutti per sempre (e pour cause naturalmente) elementi della massima importanza (tipo di carica, provenienza, congegno di accensione), che avrebbero potuto contribuire a individuare gli attentatori.
Perfino i carabinieri criticano questa sconsiderata decisione. Rimane giusto la borsa di similpelle nera marca Mosbach-Gruber che era stata il contenitore. Ma (tutto serve per imbrogliare le carte) nessuno si preoccupa di sapere dove poteva esser stata comprata (solo trentacinque negozi vendevano borse del genere, in Italia), e quando dalla questura di Padova arriva la segnalazione, tutti la ignorano.
"Cui prodest?" L'eterna domanda si leggerà presto sulle pochissime riviste non conservatrici. A chi fa gioco il massacro? E certe volte si legge anche la risposta: "Is fecit cui prodest", giova alla destra, a quelli della mano forte, dell'ordine a tutti i costi eccetera. Invece della bomba milanese e delle tre di Roma è subito accusata la sinistra, più precisamente gli anarchici, secondo una certa parte dell'opinione pubblica da sempre fautori di disordini, considerati dall'italiano medio le forze scatenate e disgregatrici dello stato e di ogni valore borghese.
Sul "Corriere" dell'indomani si legge che subito dopo l'esplosione il giudice Antonio Amati telefona in questura per sapere cosa è successo. Mah, forse è saltata una caldaia, però si fa anche l'ipotesi di un attentato terroristico. Ci sono molti morti. "Sono dell'idea che si tratti di un attentato", replica il magistrato, che, caso strano, per una volta, la imbrocca. Ma suggerisce di continuare subito le indagini "negli ambienti anarchici".
La sera stessa "La Stampa" interroga il commissario Calabresi. "I responsabili vanno cercati fra gli estremisti di sinistra", dice e perché non sussistano dubbi conclude: "È opera degli anarchici". Lui l'asso nella manica ce l'ha già, è da stasera che l'iniquo procedimento comincia. Anche il questore Marcello Guida non è da meno. C'è un giornalista che la sera del 12 gli chiede se, secondo lui, c'è un nesso gra questo e gli attentati del 25 aprile e lui risponde "di non escluderlo".
Il potere centrale? Naturalmente contribuisce all'inquinamento delle indagini. A poche ore dalla strage, il prefetto di Milano così telegrafa al presidente del Consiglio: "Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarchici aut frange estremiste. Est già iniziata previa intesa autorità giudiziaria at identificazione et arresto responsabili". Mentre il giorno dopo Franco Restivo, ministro degli Interni, telegrafa alle altre polizie europee: "En ce moment nous ne possédons aucune indication valide à l'égard des possibles auteurs du massacre, mais nous dirigeons nos premiers soupçons vers les circles anarchisants". Un capolavoro di telegramma per via di quel "mais" (come dire: non sappiamo niente, ma sono loro).
Il gioco è fatto. È fatto con abilità grossolana, ma vedremo che per gli uomini del palazzo riuscirà alla perfezione. Quando il questore Guida ammette che probabilmente c'è un nesso tra gli attentati del 25 aprile alla Fiera e alla stazione e l'attentato del 12, dice una cosa esattissima: solo che, nell'uno e nell'altro caso, non erano stati gli anarchici a metter le bombe, ma qualcuno che si voleva e doveva proteggere. L'errore commesso allora con disinvolta improntitudine, tra prove motivate e prove eliminate, culmina nella strage, quello che doveva succedere è successo. I colpevoli sono gli anarchici.
Il prefetto Mazza parla di "intesa con l'autorità giudiziaria". Ma non certo con la persona giusta, cioè col giovane Ugo Paolillo, che aveva funzioni di pm e il 12 era il sostituto di turno esterno. Si era dimostrato subito un magistrato scomodo perché voleva fare il suo dovere. Aveva rimesso in libertà degli anarchici rinchiusi in San Vittore la sera dello scoppio, data la mancanza di validi indizi, aveva respinto la richiesta di perquisire gli uffici dell'editore Feltrinelli perché immotivata; non gli avevano fatto trovare Rolandi quando lui aveva già deciso un confronto tra il tassista e la zia di Valpreda. Finché gli dicono di ritenersi esonerato dalle indagini. "La mia linea legalitaria evidentemente non coincideva con certe esigenze e certi interessi".

Camilla Cederna, Quando si ha ragione. Cronache italiane, L'ancora, 2002 (prima edizione Il mondo di Camilla, Feltrinelli, Milano, 1980)



Le bombe scoppiano venerdì 12 dicembre 1969 tra le ore 16,37 e le ore 17,24, a Milano e a Roma. La strage è a Milano, alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di Piazza Fontana, affollata come tutti i venerdì, giorno di mercato. L'attentatore ha deposto la borsa in similpelle nera che contiene la cassetta metallica che contiene l'esplosivo sotto il tavolo al centro dell'atrio dove si svolgono le contrattazioni. I morti sono sedici, molti dei novanta feriti avranno gli arti amputati dalle schegge. L'esplosione ferma gli orologi di Piazza Fontana sulle 16,37; poco dopo in un'altra banca distante poche centinaia di metri, in Piazza della Scala, un impiegato trova una seconda borsa nera, e la consegna alla direzione. È la seconda bomba milanese, quella della Banca Commerciale Italiana. Non è esplosa, forse perché il "timer" d'innesco non ha funzionato. Ma viene fatta esplodere in tutta fretta alle ore 21,30 di quella stessa sera dagli artificieri della polizia che l'hanno prima sotterrata nel cortile interno della banca.
È una decisione inspiegabile: distruggendo quella bomba così precipitosamente si sono distrutti preziosissimi indizi, forse addirittura la firma degli attentatori(3). In mano alla polizia rimangono solo la borsa di similpelle nera uguale a quella di Piazza Fontana, il "timer" di fabbricazione tedesca Diehl Junghans, e la certezza che la cassetta metallica contenente l'esplosivo è anch'essa simile a quella usata per la prima bomba. Il perito balistico Teonesto Cerri è sicuro che ci si trova davanti all'operazione di un dinamitardo esperto.
Le bombe di Roma sono tre. La prima esplode alle 16,45 in un corridoio del sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro tra Via Veneto e via San Basilio. Tredici feriti tra gli impiegati, uno gravemente. Ma anche questa poteva essere una strage. Alle 17,16 scoppia una bomba sulla seconda terrazza dell'Altare della Patria, dalla parte di Via dei Fori Imperiali. Otto minuti dopo la terza esplosione, ancora sulla seconda terrazza, ma dalla parte della scalinata dell'Ara Coeli. Frammenti di cornicione cadendo feriscono due passanti. Ma questi due ultimi ordigni sono molto più rudimentali e meno potenti degli altri. La reazione del paese è di sdegno per gli attentati, di dolore per le vittime. Ma non si assiste a nessun fenomeno di isteria collettiva, la strage non ha sbocco immediato a livello di massa, e soprattutto non contro la sinistra, anche se immediatamente dopo la bomba di Piazza Fontana le indagini e le relative dichiarazioni ufficiali puntano solo in questa direzione nella ricerca dei colpevoli(4).

(3) Il maresciallo dell'esercito Guido Bizzarri, un artificiere che in 45 anni di attività ha disinnescato circa 20.000 ordigni, dichiarerà alla stampa: "L'avrei disinnescata io ma nessuno me lo ha chiesto. È stato più pericoloso farla brillare che aprirla".
(4) Un discorso a parte meriterebbero il ruolo giocato in questa fase dalla stampa "indipendente". Basterà sottolineare che, oltre ovviamente al "Secolo d'Italia", si sono distinti nell'incitare alla caccia all'"estremista di sinistra", la "Stampa" di Torino e i quotidiani della catena editoriale del Cav. Attilio Monti. Il "Tempo" di Roma, il 13 dicembre è arrivato al punto di pubblicare con ampio risalto che "La notizia degli attentati è stata data nel corso di un'assemblea alla Città Universitaria da un oratore di "Potere Operaio" il quale ha rivendicato al suo gruppo la paternità della strage, riscuotendo l'applauso degli studenti presenti... ".

Edoardo M. Di Giovanni, Marco Ligini, La strage di stato. Controinchiesta, Supplemento al n°48 di Avvenimenti, 1993 (prima edizione La nuova sinistra, Samonà e Savelli, 1970)



Mezzanotte è passata da poco, ma è difficile dormire bene dopo una giornata come quella del 15 dicembre 1969, dopo il funerale delle vittime della Banca dell'Agricoltura. Come se tutta quell'angoscia fosse entrata nelle ossa insieme a una nebbia mai vista che rendeva bassissimo il cielo e nero il mezzogiorno. E con ancora nelle orecchie l'eco dei singhiozzi delle famiglie mentre il coro delle voci bianche in Duomo pregava Dio di aprire le porte del cielo ai loro parenti straziati. Poi quel silenzio compatto, monumentale, che aveva salutato le bare sul sagrato, quei grappoli oscuri di gente ai balconi e alle finestre, quel tappeto di folla immobile e buia nel buio che copriva tutta la città paralizzata, una quantità di gente venuta da lontano a circondare il Duomo, visi chiusi, espressioni sgomente, un dolore unanime e una tensione quasi fisicamente percepibili.
Cinque ore in Duomo in piedi a un banco per meglio vedere e sentire, un'ora in giro dopo, a casa a scrivere uno degli articoli più difficili di una lunga carriera (dovevo cominciare dalle bombe del 12, da tutto quel sangue, i rottami, i carabinieri che svengono, il sindaco che esce dalla banca col viso color terra, i parenti che vengono portati via piegati in due con la faccia tra le mani, i racconti degli scampati, il volo dei corpi mutilati sotto la cupola del salone, ecco la guerra, i bombardamenti, il caos, il massacro, il macello, ecco l'odor di guerra, di sangue caldo e di polvere da sparo, di carne bruciata e di zolfo). E adesso a letto col sonno che non arriva.
Arriva invece una telefonata. "Sei già a letto? Non importa. Fra cinque minuti davanti al tuo cancello." "Perché?" "Un uomo si è buttato da una finestra della questura, non farci aspettare, andiamo a dare un'occhiata." Sono due amici coi quali ho sempre corso in questi giorni, Corrado Stajano e Giampaolo Pansa, hanno la faccia e i modi di questi giorni, gesti frettolosi, rabbia e dolore negli occhi.

Camilla Cederna, Pinelli - Una finestra sulla strage, Il Saggiatore, Milano, 2004 (prima edizione Feltrinelli, 1971)


«Io sono convinta che la verità noi la sapremo», dice.
Quando?
«Quella notte sul pianerottolo di casa le dissi che avrei atteso magari vent'anni. Non è che abbia tanta pazienza, ma se in Italia esiste veramente una democrazia, e tutto è successo in democrazia, allora noi la verità, ripeto, la sapremo.»
Quindi lei ha fiducia.
«Malgrado tutto, sì. Pensi al primo giorno, si è voluto coprire ogni cosa, no? Ma a continuare a insistere, a spingere, a tentar di convincere, qualcosa accade. Anche se si è dovuto ricominciare tutto da capo dopo due anni. La mia, badi, non è una fiduciosa attesa passiva: più di un anno fa ho presentato denuncia per omicidio volontario, violenza privata, sequestro di persona, abuso di ufficio, abuso di autorità contro chi si trovava in quella stanza dove mio marito era trattenuto contro la legge. Sono in molti gli scettici, quando io dico che si conoscerà la verità, ma si sono sapute tante cose da allora. I nervi di qualcuno possono cedere, i nervi di qualcuno possono saltare.»
Quante persone conoscono la verità, secondo lei?
«Qualcun altro, oltre a quelli della stanza.»
Lei è mai stata interrogata, dalla polizia?
«Mai, vorrei essere io a interrogare la polizia.»
E dai magistrati?
«La prima volta, la mattina dopo la morte di mio marito andai dal giudice Paolillo. Gli ho chiesto ragione di quanto era accaduto. Lui mi disse che aveva forti perplessità sulla tesi del suicidio, e che voleva vederci chiaro. Protestai perché non ero stata avvisata subito di quel che era successo: per paura che mio marito riuscisse a dirmi qualcosa, magari una sola parola che avrebbe chiarito tutto? Il giudice era sconvolto quasi quanto me. Gli chiesi di farmi assistere agli interrogatori dei poliziotti. Lo vietava la procedura, ma lui promise di accontentarmi, era molto impressionato. A un certo momento gli dissi la fra se: “Se la giustizia è onesta...”. “Signora, la giustizia è onesta”, mi rispose lui staccando le parole. Poi l'istruttoria gli fu tolta.»
Ancora quella notte, signora Pinelli: le fecero vedere suo marito?
«Per prima andò mia suocera, mi telefonò subito dal Pronto Soccorso del Fatebenefratelli: “Qui non la vedo bene, c'è sotto qualcosa, non mi vuol dire niente nessuno. Perché non mi fate vedere mio figlio, ho chiesto ai carabinieri: e loro non mi hanno neppure risposto”. Andai anch'io dopo aver trovato un amico di famiglia che pensasse alle bambine. Quando sono arrivata all'ospedale era tutto buio, non c'era più nessuno, mia suocera aveva capito che Pino era morto dalle parole dette da un infermiere: "E la carta per il Comune?”. Mancava poco alle due, il questore Guida stava facendo la sua conferenza stampa, stava dicendo che mio marito, gravemente indiziato di concorso per la strage di piazza Fontana, con gli alibi caduti, si era ucciso. Stava dicendo che il suicidio era un'evidente autoaccusa. Querelato per diffamazione, il questore fu poi prosciolto in istruttoria per mancanza di dolo.»
Qual è la cosa che l'ha tormentata di più, quale il sospetto più grande?
«La diffamazione pubblica subita da mio marito e la ritrattazione privata, in sordina, a caratteri piccolissimi sui giornali, non attraverso il telegiornale delle venti e trenta, per esempio. Il pubblico ministero al processo Baldelli-Lotta Continua, prima dell'apertura del dibattimento, ha escluso ogni responsabilità di Pino nella strage di piazza Fontana, lo stesso ha fatto il giudice istruttore del processo Valpreda a Roma. Figuriamoci adesso che anche i giornali e gli ambienti più retrivi si schierano per l'innocenza di Valpreda, che terribile ingombro Giuseppe Pinelli, l'anarchico individualista!»
La signora Licia si esprime con contenuta passione. Ci vorrebbe una macchina da presa, qui, per cogliere anche le pieghe parlanti del suo viso. Mi vengono in mente i mesi del processo: seduta sulla panca dietro gli avvocati, lo seguì immobile giorno dopo giorno e sembrava il vero pubblico ministero, anche per quel cappello raffaellesco che portava qualche volta e che la faceva ancora più pallida. Come le appariva il dibattimento dalla panca laggiù?
«C'era la giustizia di fronte a me, dipinta sul muro. La giustizia era dipinta.»
Come si sentiva dentro quel rito che aveva per protagonista il fantasma del suo povero marito?
«Un'estranea, la spettatrice di un difficile gioco delle parti. Qualche volta avevo voglia di alzarmi e di parlare. Mi sono controllata, ho dovuto fare molti sforzi, è stata davvero un'esperienza di gran fatica. Fu durissimo, per esempio, contenersi quando fu portato il libro dei fermati in questura, con la prova del fermo illegittimo: in un allucinante stile burocratico si poteva leggere che Giuseppe Pinelli risultava messo in libertà alle ore dodici del 17 dicembre, quando era già morto da un giorno e mezzo. Una persona [l'avvocato Lener, n.d.r.] si alzò e disse che non si poteva guardare quel libro, “per rispetto della personalità umana”. Capisce, rispetto della personalità umana, dopo tutto ciò che era accaduto, dopo tutto ciò che era stato detto su Pino dal questore Guida.»
Ci fu un momento, durante il processo interrotto, in cui ebbe l'impressione di essere vicina alla scoperta della verità?
«Sì, durante l'interrogatorio del brigadiere Panessa. Vede, si è data di me un'immagine abbastanza tranquilla, si è parlato molto della mia compostezza, ma se io le dicessi quello che penso, quello che provo! Ho sentito la verità, per un attimo, in quell'aula di tribunale, capisce?»

Intervista di Corrado Stajano a Licia Pinelli, Il Giorno, 5 ottobre 1972, ripubblicata in Corrado Stajano, Maestri e infedeli. Ritratti del Novecento, Garzanti, 2008

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