Basta, mi fermo. Continuare a lasciare traccia di poesia, musica e parole e di quel poco d'altro che mi riesce facendo finta che nel Paese dove si parla la lingua in cui qui mi esprimo non stia succedendo niente o niente di grave mi è diventato impossibile e veramente troppo grande lo sforzo per continuare a non nominare mai Silvio Berlusconi, la sua corte, i suoi recidivi elettori e tutti i potenti che, tacendo, non gli fanno mancare l'appoggio, seppure indiretto, nella consapevolezza che, se lo nominassi, niente potrei aggiungere al già noto. I fatti sono notissimi, accessibili e visibili a tutti coloro che li vogliano e sappiano leggere e vedere.
In questo momento, tra la possibilità di ignorare, in questo spazio, quello che sta accadendo e la possibilità di estrinsecare o di sublimare i miei sentimenti ed i miei pensieri in altro modo in misura proporzionale a quanto tutto ciò mi occupa, scelgo il silenzio. L'attacco alla scuola pubblica, così diretto da sembrare la confessione più aperta dei suoi disegni, è gravissimo. Colpisce, in una sola volta, semplicemente tutto quello in cui credo e tutto quello che sono.
Sono quello che sono anche perché sono nata in Italia, per quanto in una sua appendice di frontiera, che italiana è diventata per caso e malamente. Sono quello che sono anche perché ho frequentato la scuola pubblica italiana(1), a cui sarò sempre debitrice, e senza la quale la democrazia perderebbe ogni residuo significato, facendo svanire del tutto la speranza in generazioni migliori della mia. Sono quello che sono anche perché non mi accontento della democrazia di facciata, svuotata nei suoi contenuti e privata delle sue regole di base. Sono quello che sono anche perché credo nell'accoglienza dello straniero e nel rispetto delle minoranze, tutte. Sono quello che sono anche perché credo che non abbia alcuna autorità morale chi, come la Chiesa cattolica, si astenga dal condannare Silvio Berlusconi in cambio della promessa, da parte di questi, di impedire il riconoscimento di pieni diritti agli omosessuali. Sono quello che sono anche perché mi sono presentata ovunque in quanto Francesca, senza reti o appoggi di qualsiasi tipo, solo con le mie capacità e le mie incapacità. Sono quello che sono anche perché ci ho provato a sufficienza, in Italia, spostandomi ovunque e incassando ovunque sberle quotidiane, tipo quella di chi mi ha concesso l'onore di un colloquio di lavoro il cui unico scopo, scoprii alla fine, era quello di vedere in carne ed ossa un ingegnere donna o di chi non investiva in ricerca e conoscenza o di chi non voleva saperne di operai iscritti al sindacato o di chi non rispettava le più elementari norme di sicurezza ed ambientali o di chi mi pagava in misura tale da coprire a stento un affitto di uno squallidissimo monolocale che costava allora più di certi affitti concessi dalla Baggina, a tutt'oggi, a gente che non ne avrebbe il minimo bisogno. Sono quello che sono anche perché il mio primo contratto di lavoro a tempo indeterminato e il mio primo stipendio commisurato alle mie capacità e potenzialità e al costo della vita li ho trovati in Germania, da perfetta sconosciuta, per di più con una allora rudimentale conoscenza della lingua locale. Sono quello che sono anche perché credo che non tutto sia in vendita e men che meno le persone, giovani donne o giudici o avvocati o giornalisti o deputati che siano. Sono quello che sono anche perché credo che l'ironia sia importante, ma non possa niente rispetto ad una realtà che urla giustizia ogni giorno e la cui condizione di ingiustizia solo per puro caso non ha ancora innescato atti di violenza e rispetto ad un presidente del consiglio dei ministri, altrove ineleggibile ab ovo, che non solo disprezza la democrazia (qui è in buona compagnia), ma che continua a ridere e a raccontare barzellette idiote (questo è il suo tristo marchio esclusivo). Sono quello che sono anche perché non temo, con queste mie parole, di finire nel ridicolo.
Sono quello che sono anche perché sono nata in Italia, per quanto in una sua appendice di frontiera, che italiana è diventata per caso e malamente. Sono quello che sono anche perché ho frequentato la scuola pubblica italiana(1), a cui sarò sempre debitrice, e senza la quale la democrazia perderebbe ogni residuo significato, facendo svanire del tutto la speranza in generazioni migliori della mia. Sono quello che sono anche perché non mi accontento della democrazia di facciata, svuotata nei suoi contenuti e privata delle sue regole di base. Sono quello che sono anche perché credo nell'accoglienza dello straniero e nel rispetto delle minoranze, tutte. Sono quello che sono anche perché credo che non abbia alcuna autorità morale chi, come la Chiesa cattolica, si astenga dal condannare Silvio Berlusconi in cambio della promessa, da parte di questi, di impedire il riconoscimento di pieni diritti agli omosessuali. Sono quello che sono anche perché mi sono presentata ovunque in quanto Francesca, senza reti o appoggi di qualsiasi tipo, solo con le mie capacità e le mie incapacità. Sono quello che sono anche perché ci ho provato a sufficienza, in Italia, spostandomi ovunque e incassando ovunque sberle quotidiane, tipo quella di chi mi ha concesso l'onore di un colloquio di lavoro il cui unico scopo, scoprii alla fine, era quello di vedere in carne ed ossa un ingegnere donna o di chi non investiva in ricerca e conoscenza o di chi non voleva saperne di operai iscritti al sindacato o di chi non rispettava le più elementari norme di sicurezza ed ambientali o di chi mi pagava in misura tale da coprire a stento un affitto di uno squallidissimo monolocale che costava allora più di certi affitti concessi dalla Baggina, a tutt'oggi, a gente che non ne avrebbe il minimo bisogno. Sono quello che sono anche perché il mio primo contratto di lavoro a tempo indeterminato e il mio primo stipendio commisurato alle mie capacità e potenzialità e al costo della vita li ho trovati in Germania, da perfetta sconosciuta, per di più con una allora rudimentale conoscenza della lingua locale. Sono quello che sono anche perché credo che non tutto sia in vendita e men che meno le persone, giovani donne o giudici o avvocati o giornalisti o deputati che siano. Sono quello che sono anche perché credo che l'ironia sia importante, ma non possa niente rispetto ad una realtà che urla giustizia ogni giorno e la cui condizione di ingiustizia solo per puro caso non ha ancora innescato atti di violenza e rispetto ad un presidente del consiglio dei ministri, altrove ineleggibile ab ovo, che non solo disprezza la democrazia (qui è in buona compagnia), ma che continua a ridere e a raccontare barzellette idiote (questo è il suo tristo marchio esclusivo). Sono quello che sono anche perché non temo, con queste mie parole, di finire nel ridicolo.
Mi fermo finché Silvio Berlusconi non si sarà dimesso e non si sarà sottoposto ai processi nei quali è imputato, almeno a quelli che non è riuscito ancora ad annichilire a colpi di prescrizioni ottenute per decreto. Non sarà la soluzione di tutti i problemi, ma sarà un buon inizio.
Non mi aspetto niente da questo mio gesto, individuale e del tutto minore, sproporzionatamente minore e incongruo rispetto alla realtà dei fatti e chiaramente fuori bersaglio. È solo il mio ultimo modo di dire basta, proprio l'ultimo a mia disposizione, avendo già esaurito tutti gli altri modi ben prima di oggi e visto che hanno pensato di togliermi non solo il diritto di voto, se penso che alle ultime elezioni politiche hanno probabilmente buttato via o alterato la mia scheda elettorale(2), ma forse anche la speranza.
Basta, mi fermo. Silenzio.
(1) "Libertà vuol dire avere la possibilità di educare i propri figli liberamente, e liberamente vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare principi che sono il contrario di quelli dei genitori."
Silvio Berlusconi, 26 febbraio 2011
(2) Dalle intercettazioni emerge anche che Di Girolamo si è recato in Germania assieme agli esponenti della cosca Arena della famiglia di Isola Capo Rizzuto per procurare voti come scrive il gip "avvalendosi della capacità di intimidazione e dell’operatività della cosca mafiosa reperivano voti presso gli immigrati calabresi in particolare nel distretto di Stoccarda e Francoforte. Dove grazie al supporto del mafioso Franco Pugliese, riciclatore dei beni della famiglia Arena difesa dall’avvocato Colosimo ora latitante, reperivano le schede elettorali in bianco inviate agli elettori residenti all’estero provvedendo al riempimento inserendovi abusivamente il nominativo Di Girolamo Nicola Paolo".
Il Fatto quotidiano, 24 febbraio 2010
*
P.S.
Quello che non emerge, quando il Pd raccoglie dieci milioni di firme o quando giornali come La Repubblica o L'Unità pubblicano i loro periodici inviti ai lettori ad inviare firme o espressioni di protesta in forma di pensierini o di foto contro i fatti del giorno, anche volendo tralasciarne la discutibile modalità, è che non è oggi che ci si deve indignare: oggi è ogni giorno sempre più tardi per farlo e farlo è un continuare a scaricare sugli altri le proprie personali, individuali responsabilità, piccole o irrisorie che siano, che ci sono sempre, se non altro per non aver fatto abbastanza per contribuire ad un possibile cambiamento. L'immagine che diamo all'estero, di cui molto si tende a parlare, non può essere la molla della ribellione o del riscatto e tanto meno il nostro metro di misura: se ci preoccupiamo tanto dell'immagine all'estero, ci riduciamo ad usare gli stessi parametri dell'Italia che molti di noi non vogliono (e poi nessuno, all'estero, proprio nessuno, ha una statura tale da ergersi a giudice in grado di puntare il dito contro di noi o la nostra storia, che tra l'altro conoscono - e conosciamo - parzialmente e male). Quello che ogni giorno aumenta, accumulandosi su uno strato già ben sedimentato, e di cui nessuno sembra volere farsi seriamente carico, è l'umiliazione, che non ha niente a che vedere con quella eventualmente derivante dai giudizi altrui, ma piuttosto con quella che a me sembra così lampante se siamo noi stessi a guardarci bene e a fondo. Aumenta anche la fatica nel trovare, nella storia del nostro Paese fino al suo presente, la continuità di un fil rouge del fare le cose e del farle bene, con onestà e dignità, il filo rosso che dia spazio alla speranza insomma, un filo che, dopo il Rinascimento, si è spezzato troppe volte e si è lasciato intravvedere a tratti sempre più brevi e sottili, fino a scomparire quasi del tutto dopo la Resistenza. Alcune trame del filo si possono vedere ancora: sono certe piazze di paese, dei paesaggi in cui si intravvede la mano dell'uomo discreta e rispettosa del territorio, degli antichi argini di fiumi, le geometrie di alcuni tetti, certi piccoli attrezzi od oggetti di artigianato, molte musiche, molti sapori e profumi, e moltissime persone che operano anonimamente, senza clamore. Altre trame sembrano del tutto sommerse, come i rari - ma preziosissimi - momenti di rivolta del popolo minuto e minutissimo e i pensieri di molti uomini passati. Tra questi ultimi, per me, non pochi pensieri di Leopardi. Ne ho trovato ora una lettera che, sebbene non possa e non debba cancellare tutto il resto, dire deludente e mortificante è dire poco. Tuttavia, se non ci si confronta prima di tutto con i propri errori in senso ampio, inclusi gli errori di coloro che fanno parte della propria storia, o quanto meno della parte più affine, non si può neanche cominciare a pensare di cambiare alcunché, ed è per questo che riporto la sua lettera.
Quello che non emerge, quando il Pd raccoglie dieci milioni di firme o quando giornali come La Repubblica o L'Unità pubblicano i loro periodici inviti ai lettori ad inviare firme o espressioni di protesta in forma di pensierini o di foto contro i fatti del giorno, anche volendo tralasciarne la discutibile modalità, è che non è oggi che ci si deve indignare: oggi è ogni giorno sempre più tardi per farlo e farlo è un continuare a scaricare sugli altri le proprie personali, individuali responsabilità, piccole o irrisorie che siano, che ci sono sempre, se non altro per non aver fatto abbastanza per contribuire ad un possibile cambiamento. L'immagine che diamo all'estero, di cui molto si tende a parlare, non può essere la molla della ribellione o del riscatto e tanto meno il nostro metro di misura: se ci preoccupiamo tanto dell'immagine all'estero, ci riduciamo ad usare gli stessi parametri dell'Italia che molti di noi non vogliono (e poi nessuno, all'estero, proprio nessuno, ha una statura tale da ergersi a giudice in grado di puntare il dito contro di noi o la nostra storia, che tra l'altro conoscono - e conosciamo - parzialmente e male). Quello che ogni giorno aumenta, accumulandosi su uno strato già ben sedimentato, e di cui nessuno sembra volere farsi seriamente carico, è l'umiliazione, che non ha niente a che vedere con quella eventualmente derivante dai giudizi altrui, ma piuttosto con quella che a me sembra così lampante se siamo noi stessi a guardarci bene e a fondo. Aumenta anche la fatica nel trovare, nella storia del nostro Paese fino al suo presente, la continuità di un fil rouge del fare le cose e del farle bene, con onestà e dignità, il filo rosso che dia spazio alla speranza insomma, un filo che, dopo il Rinascimento, si è spezzato troppe volte e si è lasciato intravvedere a tratti sempre più brevi e sottili, fino a scomparire quasi del tutto dopo la Resistenza. Alcune trame del filo si possono vedere ancora: sono certe piazze di paese, dei paesaggi in cui si intravvede la mano dell'uomo discreta e rispettosa del territorio, degli antichi argini di fiumi, le geometrie di alcuni tetti, certi piccoli attrezzi od oggetti di artigianato, molte musiche, molti sapori e profumi, e moltissime persone che operano anonimamente, senza clamore. Altre trame sembrano del tutto sommerse, come i rari - ma preziosissimi - momenti di rivolta del popolo minuto e minutissimo e i pensieri di molti uomini passati. Tra questi ultimi, per me, non pochi pensieri di Leopardi. Ne ho trovato ora una lettera che, sebbene non possa e non debba cancellare tutto il resto, dire deludente e mortificante è dire poco. Tuttavia, se non ci si confronta prima di tutto con i propri errori in senso ampio, inclusi gli errori di coloro che fanno parte della propria storia, o quanto meno della parte più affine, non si può neanche cominciare a pensare di cambiare alcunché, ed è per questo che riporto la sua lettera.
Eminentissimo Principe. Incoraggiato dai luminosi esempi di sua generosa benevolenza verso quei sudditi Pontificii che in qualche modo si affaticano per li progressi de' buoni studi, supplico l'Eminenza Vostra Reverendissima a rivolgere anche sopra di me i suoi benefici sguardi.
Essendomi finora applicato alle lingue classiche e a quelle materie che più direttamente dipendono dalle medesime ho pur troppo conosciuto che dovrei rinunziare a ogni speranza di ulteriori avanzamenti se continuassi a vivere in Recanati mia patria.
D'altronde mio padre aggravato di prole, e per le passate vicende attenuato di rendite, non ha mezzi di mantenermi in altro luogo dove la Società d'uomini di Lettere, e il soccorso de' libri possano confezionare le mie deboli cognizioni.
Sarebbe pertanto mia fervida brama di giungere a questo scopo coll'esercizio di qualche impiego amministrativo, nel quale servendo fedelmente lo Stato, avessi il modo di servire ancora, secondo le mie scarse forze, all'incremento di quelle scienze a cui mi sono dedicato.
Veggo che niun impiego potrebb'essere più confacente alle mie mire e alle mie ristrette capacità che quello di Cancelliere del Censo in qualche importante Capoluogo di Delegazione. E se attualmente non ve n'ha alcuno vacante, non manca certamente all'Eminenza Vostra Reverendissima il modo di supplire a ciò, conferendo ad alcuno degli attuali Cancellieri del Censo qualche equivalente impiego che fosse ora vacante o per vacare.
Supplico l'Eminenza Vostra a perdonare colla sua tanto acclamata bontà il mio ardire, ed attribuirlo alla fiducia che m'ispira il suo gran cuore, permettendomi intanto di segnarmi con profonda venerazione e gratitudine di Vostra Eminenza Reverendissima umilissimo, devotissimo, obbligatissimo Servitore.
Lettera di Giacomo Leopardi al cardinal Consalvi, 1823. Tratta da Ermanno Rea, La fabbrica dell'obbedienza. Il lato oscuro e complice degli italiani, Feltrinelli, 2011
Se ti fermi in protesta di ciò che succede nell’Italia, il Cavaliere non piangerà. Noi lettori invece sì.
RispondiEliminaQui nell’Ungheria, dove dirige un amico e discepolo di Berlusconi nello stesso stile ma in un’edizione ancora più provinciale, dove il percentuale dei miei compatrioti che si consentono vergognosamente di questa tragicomedia è ancora più alto che nell’Italia, e dove la complicità assoluta e servile della chiesa cattolica è tanto più dolorosa a me, cattolico, la mia scelta è di continuare a scrivere finché si può, di tutto ciò che io ritengo degno di scrivere, senza tener conto di loro. Sempre in modo di protesta.
Capisco la tua scelta e mi fa sempre piacere vedere quali fruttuosi ed incantevoli risultati essa sia in grado di produrre.
RispondiEliminaNon voglio certamente far piangere i miei lettori e tanto meno te, benevolissimo lettore, che spero possa avere la pazienza di aspettarmi. Voglio solo trasmettere la mia frustrazione e la mia difficoltà nel continuare a usare l'italiano, bellissima, vituperata lingua, evitando di parlare di Berlusconi (discorso che preferisco lasciare ad altri) e riportando poesie e piccolezze rispetto alla gravità di quello che l'Italia sta subendo da anni. Si dice che è stato votato più volte. Vero. Ma si omette di dire che si è inventato una legge elettorale che favorisce la sua coalizione e con cui si voterà anche la prossima volta. Si è assicurato il controllo della televisione e di importanti case editrici pagando tangenti, si è infischiato della Costituzione, della Corte Costituzionale, della Magistratura, del Presidente della Repubblica. Si è scelto, tra i suoi alleati all'estero, Putin e Gheddafi. Ha corrotto mezzo Paese e ha potuto farlo perché le forze democratiche non sono state in grado di rendere il Paese forte, culturalmente forte, in grado di difendersi dal richiamo del denaro e dai suoi effimeri risultati, inclusi gli insulsi sorrisi artificiali ritoccati dalla chirurgia plastica. Ha costretto i giornalisti che non sono finiti sul suo libro paga non solo a urlare al vento, ma anche a smettere di chiamare le cose col loro nome, fatto gravissimo (lo chiamano Silvio B., B., iena ridens, nano e con una infinita serie di nomignoli, alterano le parole, dicono gratuitamente "spin off", dicono "mission", dicono "exit poll", ecc., non sembrano avere la minima dose di forza, di sincerità e di umiltà necessarie, nemmeno coloro che gli si oppongono, per cominciare a ristabilire la verità chiamando le cose e le persone col loro nome, in italiano). È entrato nella testa delle persone, di molti giovani e dei ceti più deboli, profondamente, lasciando passare il messaggio che lo Stato è il male, che il privato è la panacea di tutti i mali e che tra libertà e licenza non vi sia differenza alcuna. Umberto Eco, che è un gran furbone, ma rimane un intellettuale, uno dei pochi intellettuali italiani letti all'estero, cosa piuttosto indicativa dello stato della cultura italiana, è stato sbeffeggiato perché ha osato replicare, in risposta alla presidente degli industriali Marcegaglia che, per distinguersi - tardivamente - dalla condotta di Berlusconi non aveva trovato di meglio da dire che c'è un'Italia che lavora, che va a letto presto e che si sveglia presto, Umberto Eco, dicevo, è stato sbeffeggiato perché ha replicato che lui va a letto tardi perché legge Kant. Siamo arrivati al punto in cui se uno legge Kant è un deficiente.
Ogni qual volta all'estero, specialmente nei momenti più evidenti della crisi politico-culturale italiana, mi è stato chiesto e mi si chiede di spiegare quello che accade in Italia, e in tutti i momenti in cui più acuto si fa il mio magone (una delle poche parole italiane di origine tedesca: viene da Magen), ho trovato i blog italiani del tutto surrealisti, sia che si occupassero testardamente (a diritto, intendiamoci) di rintuzzare le sparate e le azioni del governo italiano a colpi di logica, sia che vi si opponessero con l'ironia e la satira, sia che cercassero, nonostante tutto, di occuparsi di cultura, in tutte le sue variegate forme.
Certo che lui non piangerà, ma spero che i lettori comprenderanno se, come ultima forma di protesta, uso l'unica arma che mi rimane.
Nel frattempo, continuerò a comportarmi, da italiana all'estero, al mio meglio, a tentare di imparare l'ungherese, a studiare e a leggere, a cominciare da Kant.
A mo' di nota a margine, non hai idea di quante persone finiscano qui cercando un commento o un'interpretazione o un'analisi di una poesia come "A un albero meraviglioso" di Vivian Lamarque:
RispondiEliminaCaro albero meraviglioso
che dal treno qualcuno
ti ha tirato un sacchetto
di plastica viola
che te lo tieni stupito
sulla mano del ramo
come per dire
cos’è questo fiore strano?
Speriamo che il vento
se lo porti lontano.
Ci vediamo al prossimo viaggio
ricorderò il numero del filare
il tuo indirizzo, ho contato
i chilometri dopo lo scalo-merci
arrivederci.
Cara Francesca, avrei miliardi di cose da dirti nell'impeto dell'entusiasmo che provo leggendo queste tue parole...ma mi limito a dire che sei una delle persone più intelligenti, forti e belle che abbia conosciuto!
RispondiEliminaCara Francesca, avrei miliardi di cose da dirti nell'impeto dell'entusiasmo che provo leggendo queste tue parole...ma mi limito a dire che sei una delle persone più intelligenti, forti e belle che abbia conosciuto!
RispondiEliminaDu bist aber zu nett :-) Attendo il racconto di miliardi di cose, in qualunque forma ti sentirai di darlo.
RispondiEliminaE' qualche giorno che cerco di formulare una risposta, che poi non è tanto una risposta quanto un grazie, torna presto. Credo che la tua scelta sia perfettamente razionale se consideri il tuo scrivere una consolazione, un analgesico. E invece secondo me è un antidoto, proprio perché espressione non soltanto di una passione, ma anche di una rabbia. Parlare di quelle che chiami poesie e piccolezze, ma non così, genericamente e in modo frivolo, bensì nel modo specifico in cui lo facevi (e, spero, tornerai a farlo), cioè con fatica, ostinandoti a voler tradurre, rovistando nella non attualità, esprimevi secondo perfettamente una critica di quello di cui giustamente tacevi. Il tuo lavoro sul tempo è il contrario del berluconismo ma anche delle sue alternative più povere di idee e di cultura, cioè di quella parte della sinistra che vuole farci diventare moderni facendoci dimenticare chi eravamo. Per questo - e non solo per il grande piacere che mi dà leggerti - spero che la tua assenza sarà breve.
RispondiEliminaGrazie a te, Giovanni, per le tue parole e per il tempo che ti sei preso per esprimerle. Se sono emerse la fatica e l'ostinazione, pur testimoniando queste solo la modalità con cui compio la mia ricerca, in totale contrasto con la scintilla iniziale da cui la ricerca prende avvio e che è invece sempre spontanea, non meditata, vuol dire che sono emersi degli aspetti fondamentali del mio modo di pormi e di agire. Sì, c'è quello che dici, c'è anche una specie di necessità, che probabilmente è più prossima all'analgesico che all'antidoto (cui mi piacerebbe credere, ma cui tendenzialmente non credo), c'è anche la testimonianza della ricerca che dicevo (e non un'esibizione di risultati, che non posseggo), c'è la questione dell'italiano e del suo inestricabile legame con tutto il resto. C'è anche, però, e non sottovalutiamolo, il significato del silenzio e quello che esso stesso, pur in assenza di parole, comunica. A presto, lo spero anch'io.
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