Nel 1801 Bruto Provedoni, ritornato in Friuli dopo aver perso una gamba in battaglia nelle file della Repubblica Cisalpina, scrive una lettera all'amico Carlino, il protagonista e io narrante delle Confessioni d'un italiano, che in quel momento si trova a Ferrara. Ne ricopio un breve estratto.
Come sapete, furono tolte le antiche giurisdizioni gentilizie; e Venchieredo e Fratta non sono più altro che villaggi, soggetti anch'essi, come Teglio e Bagnara, alla Pretura di Portogruaro. Così si chiama un nuovo magistrato stabilito ad amministrar la giustizia; ma per quanto sia utile e corrispondente ai tempi una tal innovazione, i contadini non ci credono. Io sono troppo ignorante per avvisarne le cause; ma essi forse non si aspettano nulla di bene da coloro che colla guerra hanno fatto finora tanto male. Quello che è certo si è che coloro che in questo frattempo si sono ingrassati furono i tristi; i dabbene rimasero soverchiati, e impoveriti per non aver coraggio di fare il loro pro' delle sciagure pubbliche. I cattivi conoscono i buoni; sanno di potersene fidare e li pelano a man salva. Nei contratti con cui sottoscrivono alla propria rovina essi non si provvedono né appigli a future liti né scappatoie; danno nella rete ingenuamente, e sono infilzati senza misericordia. Alcuni fattori delle grandi famiglie, gli usurai, gli accaparratori di grano, i fornitori dei comuni per le requisizioni soldatesche, ecco la genia che sorse nell'abbattimento di tutti. Costoro, villani o servitori pur ieri, hanno più boria dei loro padroni d'una volta, e dal freno dell'educazione o dei costumi cavallereschi non sono neppur costretti a dare alla propria tristizia l'apparenza dell'onestà. Hanno perduto ogni scienza del bene e del male; vogliono essere rispettati, ubbiditi, serviti perché sono ricchi. Carlino! La rivoluzione per ora ci fa più male che bene. Ho gran paura che avremo di qui a qualche anno superbamente insediata un'aristocrazia del denaro, che farà desiderare quella della nascita. Ma ho detto per ora, e non mi ritratto; giacché se gli uomini hanno riconosciuto la vanità di diritto appoggiati unicamente ai meriti dei bisnonni e dei trisarcavoli, più presto conosceranno la mostruosità d'una potenza che non si appoggia ad alcun merito né presente né passato, ma solamente al diritto del danaro che è tutt'uno con quello della forza. Che chi ha danaro se lo tenga e lo spenda e ne usi; va bene; ma che con esso si comperi quell'autorità che è dovuta solamente al sapere e alla virtù, questa non la potrò mai digerire. È un difettaccio barbaro ed immorale del quale deve purgarsi ad ogni costo l'umana natura.
Ippolito Nievo, Le confessioni d'un italiano, Capitolo Decimottavo, Arnoldo Mondadori Editore, 1981
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