Mi piace leggere i quotidiani e anche andare a rileggerne di vecchi, esattamente come faccio con i vecchi libri. Per ricordare, per cercare di trovare spiegazioni al percorso che stiamo facendo, per leggere nel modo più critico possibile quelli attuali.
Tra i giornali che leggo regolarmente, sono tornati a comparire con assiduità i giornali italiani. Ne ho ripreso la lettura regolare dopo una lunga pausa che mi ero presa dall'Italia, che ho lasciato nel 2005 (fisicamente; con la testa chissà da quando) e che, principalmente per immergermi totalmente nella nuova realtà, tedesca, per un buon anno ho, se non quasi completamente trascurato, quanto meno guardato con distacco, un po' perché avevo ripreso a respirare normalmente e volevo continuare a farlo, un po' perché, per necessità e voglia di apprendere in fretta la nuova lingua e per curiosità entusiastica verso il nuovo mondo, mi bombardavo quotidianamente esclusivamente di radio, televisione (che poi, dopo un suo utilizzo à l'albanaise(*), ho smesso del tutto di guardare), film, teatro, giornali e libri tedeschi. Dopo il primo anno ci sono state delle lente, graduali fasi di avvicinamento perché il distacco iniziale era arrivato ad un punto tale, se non da rinnegare, almeno da compromettere una parte importante di me, con cui devo pur fare i conti, e ancora, alternate alle prime, delle fasi di allontanamento dovute al ritrovare immancabilmente nel mio Paese d'origine, ogni volta che vi rivolgessi lo sguardo, i comportamenti, le smemoratezze, le carenze e i vizi che trovavo e trovo inaccettabili. Così, l'esperienza che inizialmente, non senza un certo vezzo, ed in modo per niente originale, avevo definito dispatrio (richiamandomi a Meneghello), col tempo si è trasformata in qualcosa che non so definire ancora, tanto che non ha più nemmeno un nome: quel che è certo è che non è né un espatrio né un dispatrio perché la parola patria nel mio vocabolario non esiste e quindi un mio allontanamento da essa, in qualsiasi forma esso si manifesti, è proprio da escludersi.
Tra i giornali che leggo regolarmente, sono tornati a comparire con assiduità i giornali italiani. Ne ho ripreso la lettura regolare dopo una lunga pausa che mi ero presa dall'Italia, che ho lasciato nel 2005 (fisicamente; con la testa chissà da quando) e che, principalmente per immergermi totalmente nella nuova realtà, tedesca, per un buon anno ho, se non quasi completamente trascurato, quanto meno guardato con distacco, un po' perché avevo ripreso a respirare normalmente e volevo continuare a farlo, un po' perché, per necessità e voglia di apprendere in fretta la nuova lingua e per curiosità entusiastica verso il nuovo mondo, mi bombardavo quotidianamente esclusivamente di radio, televisione (che poi, dopo un suo utilizzo à l'albanaise(*), ho smesso del tutto di guardare), film, teatro, giornali e libri tedeschi. Dopo il primo anno ci sono state delle lente, graduali fasi di avvicinamento perché il distacco iniziale era arrivato ad un punto tale, se non da rinnegare, almeno da compromettere una parte importante di me, con cui devo pur fare i conti, e ancora, alternate alle prime, delle fasi di allontanamento dovute al ritrovare immancabilmente nel mio Paese d'origine, ogni volta che vi rivolgessi lo sguardo, i comportamenti, le smemoratezze, le carenze e i vizi che trovavo e trovo inaccettabili. Così, l'esperienza che inizialmente, non senza un certo vezzo, ed in modo per niente originale, avevo definito dispatrio (richiamandomi a Meneghello), col tempo si è trasformata in qualcosa che non so definire ancora, tanto che non ha più nemmeno un nome: quel che è certo è che non è né un espatrio né un dispatrio perché la parola patria nel mio vocabolario non esiste e quindi un mio allontanamento da essa, in qualsiasi forma esso si manifesti, è proprio da escludersi.
Stasera mi sono trovata a leggere dei giornali del biennio 1993-1994, passando per lo sbando della sinistra, per il tripudio della Confindustria di Abete e per i rimproveri ed i moniti di Mitterrand seguiti alla prima vittoria berlusconiana. In un articolo di fondo di Barbara Spinelli su La Stampa del 5 aprile 1994 intitolato La gente è brutta, la giornalista - che seguo con attenzione e stima da una ventina d'anni, non solo attraverso i giornali - rassicurava coloro che allora si stracciavano le vesti dopo quella vittoria, in ispecie Scalfari, e che ne individuavano i motivi nella storica divisione dell'Italia in bande e nell'atavica mancanza di senso dello Stato e di morale, ricordando loro che una sconfitta alle elezioni in un Paese democratico non è la fine del mondo:
"Come se non potesse accadere più nulla, dopo simile voto: come se non esistessero altre elezioni in futuro, da preparare e da vincere. Come se fossimo entrati in un nuovo regime, per altri cinquant'anni: senza possibilità di ricambio, di alternanza, senza ulteriori occasioni in cui poter giudicare i governanti, per promuoverli o bocciarli. Da un popolo così mostruoso non ci si aspetta più nulla: né capacità di giudizio, né attitudine a cambiare opinione, la prossima volta".
L'articolo si chiudeva ricordando che democrazia è "scommettere sempre di nuovo sul suffragio universale, pur conoscendo le trappole e le mostruosità".
Oggi non siamo arrivati al cinquantennio, ma dal ventennio non siamo in fondo molto distanti.
Da allora, si è parlato e si continua a parlare molto di Berlusconi, e io a riguardo non ho proprio niente di nuovo da aggiungere (si è detto che è diventato un utile idiota per giustificare le nostre magagne?). Si è detto e si continua a dire di tutto anche sui suoi elettori, e qui invece ho una piccola cosa da dire, ed è questa. Per molto tempo, mi sono ripetuta anch'io la litania delle caratteristiche dell'elettorato berlusconiano, della sua dipendenza dalla televisione, del suo pensare con la pancia, dei suoi interessi, persino del suo mutamento antropologico che, non si sa perché, avrebbe completamente risparmiato chi per Berlusconi non ha votato. Poi, però, ai miei occhi è emerso un "resto", forse minimo, forse addirittura marginale, che non rientra nel quadro generale, cui non so dare una spiegazione. Si trova esemplificato ed incarnato in una persona specifica, ma temo - anche se vorrei naturalmente sbagliarmi - che non sia un caso isolato. Può avere la limitatezza della singolarità, ma ha senz'altro il pregio della concretezza: si tratta di mio zio Walter.
Mio zio Walter non è una persona che ragiona con la pancia. Guarda la televisione, quello sì, ma legge anche i giornali, e fa un largo uso anche delle informazioni che circolano in rete. Ha alle spalle una lunga esperienza lavorativa fatta in diverse città d'Italia, ha una famiglia che adora, è cattolico, ha un passato di sinistra, è razionale, si esprime in un italiano corretto, conosce l'uso del congiuntivo, non dice tennologia, e, sopra ogni altra cosa, è una persona onesta. Eppure, dai tempi di Mani Pulite, ha iniziato a covare un vero e proprio rancore nei confronti della magistratura e di chi - per come la vede lui - ha smantellato il suo partito di riferimento da sempre, quello socialista, fino a portarlo all'estinzione. Quando Di Pietro, finita la fase di appoggio popolare incondizionato, a metà degli anni '90 dovette difendersi da una serie di attacchi giudiziari, ricordo che tornava a casa chiedendo a mia zia, prima ancora di dire "come va?", se avessero arrestato Di Pietro, con un lampo negli occhi che prometteva di trasformarsi in sonora risata e sfregamento di mani se mai la risposta fosse stata positiva. La risata gli è rimasta in gola, come si sa, però mio zio Walter prosegue imperterrito nel suo cammino di uomo onesto ed al contempo di elettore berlusconiano, convinto che il suo eletto sia un perseguitato e trovando delle giustificazioni - che ultimamente ignoro nei dettagli, visto che abbiamo difficoltà a confrontarci, dopo un memorabile Natale in cui per un pelo non siamo venuti alle mani - a tutto quello che ben conosciamo, dai non cristallini inizi della fondazione delle sue imprese, all'iscrizione alla P2, alla conquista dello strapotere mediatico, al salvataggio e all'appoggio della destra più retriva, alle quanto meno discutibili frequentazioni, giù giù fino ai grandi annunci intesi a coprire il vuoto legato all'incapacità o alla mancanza di volontà o reale interesse di risolvere i problemi concreti del Paese, allo spregio delle sentenze della Corte Costituzionale e della Costituzione tout court (sovietica, la definì), alle notizie di reato, alla magica trasformazione di potenziali sentenze di condanna in prescrizioni, alla violazione delle regole, all'alterazione delle stesse in barba all'interesse comune per potervi artificialmente rientrare con un tocco taumaturgico, al continuo sottrarsi ai processi, alla compravendita di deputati, allo svuotamento del ruolo del Parlamento e al perenne conflitto istituzionale.
Ecco, mio zio Walter non risponde al ritratto dell'elettore berlusconiano tipo che si ama dipingere, eppure lo ha votato e, se si ricandiderà, lo rivoterà con convinzione. Mio zio Walter non rientra nel quadro, eppure esiste, vive e se la prende ogni giorno, esattamente come me la prendo io, anche se per motivi diversi, per quello che accade in Italia. Non trovo nessun argomento e nessun appiglio per poter solo sperare che lui e chi come lui possano cambiare idea, riconoscere il vulnus, le inopportunità, l'inadeguatezza, le manchevolezze e le vere e proprie colpe di Berlusconi e del suo entourage.
Non mi pare che nessuno, finora, sia in grado di rivolgersi ad una persona come lui e di discuterci, e questa cosa mi preoccupa molto. Ho poi l'ovvia sensazione che l'attuale indignazione sia troppo tardiva, che si disperda e sia solo un fuoco fatuo. Non vedo grandi motivi per ben sperare: le istituzioni italiane hanno dimostrato di non essere sufficientemente robuste da resistere a derive pericolose e agli attacchi che un presidente del consiglio come Berlusconi ha portato e porta allo Stato democratico. È dal 1994 che si lasciano violare "democraticamente", col favore di una parte della società (le violazioni precedenti da parte dei servizi e affini mi sembrano di altra natura) e, se nessuno sarà in grado di rafforzarle, forse in futuro ci saranno delle pause, delle tregue, ma risuccederà ancora, con lui o, per raggiunti limiti d'età, con qualcuno ancora peggio di lui, visti gli strappi istituzionali e legislativi che hanno reso la struttura democratica italiana ancora più debole di quanto non lo fosse già nel 1994. Ma il timore più grande è lo scenario di un dopo Berlusconi seguito da un altro Berlusconi: sua figlia.
(*) Negli anni Novanta, si diceva che gli albanesi che, appena sbarcati in Italia, avevano già una ragguardevole ed encomiabile conoscenza della lingua italiana, l'avessero appresa grazie a dosi massicce di televisione italiana.
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