venerdì 30 marzo 2012

Упав с велосипеда

Упав с велосипеда, знаешь вдруг:
между тобой и миром — плоть,
и так тонка, и так капризна,
что грубой и выносливой душе
она сплошная укоризна.

И знаешь вдруг,
что равен небу, лесу, полю,
как зеркало, что ли, ты —
тогда представишь ЗЕРКЛО,
чьи отраженья сначала расплывчаты,
потом и вовсе вылиты
и брызнули на волю,
как рыбки из садка,
как мотыльки из сада,
как с неба облака,
как с облаков вода,
как Аронзона вкруг
всё замелькало, смеркло.

Ольга Мартынова


Cadendo dalla bici

Cadendo dalla bici, d'incanto sai:
tra te ed il mondo solo carne,
e così fine, e così capricciosa
da essere un solo rimprovero
all'anima
rude ed indurita.

E d'incanto sai
di essere uguale al cielo, al bosco, al campo,
un po' come uno specchio
poi pensi: uno SPECIO
in cui i riflessi dapprima sono sfumati,
poi si riversano
spruzzati in libertà,
come pesci da una vasca,
come falene da un giardino,
come nuvole dal cielo,
come gocce dalle nuvole,
come attorno ad Aronson
tutto prese a sfavillare, a spegnersi.

Ol'ga Martynova

Leonid Aronson (1939-1970), poeta leningradese morto sulle montagne dell'Asia centrale vicino a Taškent, in circostanze mai del tutto chiarite: per alcuni suicida, per altri in un incidente di caccia. Nel 1966, Aronson scriveva più o meno questo: Il soggetto della mia letteratura sarà la rappresentazione del paradiso. È sempre stato così, ma diventerà ancora più definito, come espressione di una percezione del mondo opposta alla vita. La vita che viviamo è artificiale, la nostra vera vita è il paradiso, e se le impressioni eterne dei rapporti non fossero così ingiuste e stupide, la vita non diventerebbe simile al paradiso, sarebbe il paradiso. Il fatto che l'arte si occupi dei nostri incubi dimostra l'incomprensione della Verità.

giovedì 29 marzo 2012

Si parla italiano

Ich saß nachts mit heftigen Schmerzen auf einer Bank. Mir gegenüber auf einer zweiten nahmen zwei Mädchen Platz. Sie schienen sich vertraut besprechen zu wollen und begannen zuflüstern. Niemand außer mir war in der Nähe, und ich hätte ihr Italienisch nicht verstanden, so laut es sein mochte. Nun konnte ich bei diesem unmotivierten Flüstern in einer mir unzugänglichen Sprache mich des Gefühls nicht erwehren, es lege sich um die schmerzende Stelle ein kühler Verband.

Walter Benjamin, Einbahnstrasse, 1928

Me ne stavo seduto di notte su una panchina, con forti dolori. Di fronte a me, su una seconda panchina, presero posto due ragazze. Sembravano volersi fare delle confidenze e si misero a bisbigliare. Non c'era nessun altro a parte me, nei paraggi e, per quanto forte avesse potuto essere il loro tono, non avrei capito il loro italiano. Ecco, rispetto ad un tale bisbigliare senza motivo in una lingua a me incomprensibile, non potevo fare a meno di provare la sensazione di una benda fresca applicata sulla parte dolorante.

Per lettori disoccupati
Cfr., volendo.
Chi volesse invece planare su parole marcate dall'entusiasmo di un principiante non sprovveduto, non ha che da puntare il mouse e cliccare ivi e leggere la parte finale del post.
Infine, se mai interessasse un punto di vista meno benevolo, eppur privo di astio o rancore, si passi di qua, sempre volendo.

mercoledì 28 marzo 2012

два скрыпачы

Генерал! Наши карты — дерьмо. Я пас.
І. Бродскі

два скрыпачы праз поле ваенных дзеянняў
з руінаў філармоніі
ў ціхае «будзем»
бягуць

нарэшце адзін з іх падае,
паранены,
другі вяртаецца,
узвальвае на плечы першага
і пачынае яго цягнуць

першы доўга трывае боль,
а пасля пачынае трэнас:

сымон, бог з табой,
якога
хрэна?!

сымон,
твая каханая здраджвала табе са мной,
цяпер,
каб здрадзіць ізноў, вярнулася да цябе,
скажы шчыра,
думаеш, ты — сапраўдны мужчына?

бо мужык даўно з цябе выпарыўся, знік
у кірунку нябёсаў. у рэшце рэшт,
ты няправільна трымаеш смык,
ты няправільна мяне нясеш!

мы маглі б быць з табой кім заўгодна, мы маглі б быць
зусім не музыкі, калі б не гэты пракляты бліц-
крыг, распачаты імперыяй; мы не бярэм удзелу ў вайне —
і кааліцыі напляваць, як мне цяпер баліць.

галоўнакамандуючы не мае музычнага слыху, таму
як дырыжор ён ніякі, ён ніколі не ўчуе вайну
усё супраць нас, сымоне, і нашы з табою шанцы —
нуль.

сымон, кінь мяне проста тут дзеля нашых сыноў
я такі, ты ведаеш, здолею выкараскацца ізноў
ты слабак, сымон, таму ты мусіш бегчы адзін
і сына свайго абдымі і скажы, што ён мой сын

ты мамчын сынок,
сымон! —
чулася наўздагон

Віталь Рыжкоў


due violinisti

Generale! Le nostre carte sono una merda. Io passo.
I. Brodskij

due violinisti sul campo di battaglia
scappano
dalle rovine della filarmonia
in un tranquillo "saremo"

alla fine uno di loro cade
ferito
mentre il secondo torna indietro
e si carica sulle spalle il primo
e comincia a tirare

il primo sopporta a lungo il dolore
e d'un tratto comincia ad urlare:

symon, dio sia con te,
che
cazzo?!

symon,
il tuo tesoro ti ha tradito con me,
ed ora
è tornata da te per tradirti di nuovo:
dimmi francamente
pensi ancora di essere un vero uomo?

ché l'uomo in te è scomparso, si è volatilizzato
nell'aria. dopo tutto
tieni l'arco in modo sbagliato,
mi porti in modo sbagliato!

potremmo essere chiunque, potremmo non essere
affatto musicisti, se non fosse per quella maledetta blitz-
krieg che l'impero ha cominciato; noi non prendiamo parte alla guerra
e alla coalizione non importa quanto mi ferisca adesso

il comandante non ha orecchio per la musica, quindi
come direttore è inutile, non sentirà mai la guerra
tutti sono contro di noi, symon, e le nostre chances con te sono
zero

symon, per il bene dei nostri figli lasciami qui
dovremmo uscirne, sai, uno per volta
sei un buono a nulla, symon, per cui dovresti proseguire da solo
abbraccia tuo figlio e digli che è figlio mio

sei un cocco di mamma,
symon! -
sentì poi

Vital' Ryzhkou

domenica 25 marzo 2012

E António sorriu

So con certezza che oggi, 25 marzo 2012, in una stanza dell'Hospital da Cruz Vermelha, Antonio Tabucchi, poco prima di morire, ha ricevuto la visita del suo Maestro Fernando Pessoa, l'autore, tra l'altro, di Tabacaria, la prima poesia di Pessoa/Álvaro de Campos che Tabucchi lesse in assoluto, una poesia trovata, in una traduzione francese (quella di Armand Guibert? quella di Pierre Hourcade? - Tabucchi si è contraddetto, in proposito, negli anni), da un bouquiniste parigino nell'autunno del 1964, quando era studente alla Sorbona. La scoperta di Bureau de tabac lo spinse ad iscriversi ad un corso di lingua e letteratura portoghese che, appena aperta la porta della classe per assistere alla prima lezione, gli si rivelò con queste parole, recitate dalla voce di Luciana Stegagno Picchio, tratte da una poesia antica, probabilmente le prime parole poetiche che intese in quella lingua, sicuramente quelle che lo sottrassero definitivamente, salvificamente, all'Italia (ma non all'italiano ed agli inevitabili sensi di colpa provati per una colpa pur inesistente):

Ondas do mar de Vigo, onde está o meu amigo? 
Se sabeis onde está o meu amigo, aí Deus que volte cedo.

So con certezza che oggi Tabucchi, durante la visita che Pessoa finalmente gli ha reso, si è rivolto al Maestro con un sorriso, come ad un padre, come a colui che gli ha dato la vita interiore. Sì, Tabucchi ha sorriso. Lo so perché quell'incontro, seppure in altre circostanze e sotto altre spoglie, Tabucchi lo aveva già immaginato con precisione: ne Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa, Sellerio, 1994, la sua fantasia percorse la notte del 28 novembre del 1935, la notte in cui, poco prima di morire, Pessoa, in una piccola stanza della clinica São Luis dos Franceses ricevette la visita del suo Maestro, Alberto Caeiro:
Pessoa sorrise. Lo sapevo, disse, l'ho sempre considerata mio padre, anche nei miei sogni lei è sempre stato mio padre, non ha niente da rimproverarsi, Maestro, mi creda, per me lei è stato un padre, colui che mi ha dato la vita interiore.

sabato 24 marzo 2012

Dizionario di tutte 'e cose - V come Voglia di lavorare

Voia de lavorar saltime 'dosso
Lavora ti, paron, che mi no posso
Detto popolare triestino

Nessuna roba al mondo xe più bela
de bâte gnifa duto 'l santo dì.
Biagio Marin, I canti dell'isola

Tengo 'na voglia e fa niente.
Enzo Del Re

Poca voglia di far bene;
viver lieto, andare a spasso
fresco e grasso mi mantiene,
la fatica m'è nemica;
e mentre io vivo così
è per me festa ogni dì.
Diridiridiridi, diridiridiridi.


Le roi de la glande

J’aime pas travailler debout
J’aime pas travailler assis
J’aime pas travailler à genoux
J’aime pas ouais travailler du tout

Moi ce que j’aime c’est glander
Quand je glande faut pas m’emmerder
Et pour être sûr de m’lever tard
Tous les soirs je me fum’ un pétard

J’aime pas travailler patron
Tu crois que j’te prends pour un con
Tu aimerais bien me virer
Si je t’avais laissé m’embaucher

Mêm’ si tu me trouves un emploi
Sach’ que je n’bosserai pas pour toi
Je préfèr’ rester au chômage
À me dorer le cul sur une plage

J’aime pas travailler debout
J’aime pas travailler assis
J’aime pas travailler à genoux
J’aime pas ouais travailler du tout

Et si un jour un beau matin
Je dois m’en aller au turbin
Je prendrai mes jambes à mon cou
Et je partirai pour le Pérou

Dans la Cordillère des Andes
Je créerai la républiqu’ d’la glande
Travailler sera interdit
Excepté pour se construire un lit

Je n’travaill’rai jamais debout
Pensez pas m’faire bosser assis
Encore moins m’faire taffer à genoux
Je ne travaillerai plus du tout

Final’ment je ne travaille pas
Je ne cherch’ même pas d’emploi
Et je reste là à vivoter
Au soleil sans me préoccuper

Zoufris Maracas

Storia di un esergatore - 4

Sono disoccupato per colpa di un esergo che avevo proposto all'editore di una nuova edizione di Alcools prevista in occasione del prossimo centenario dalla prima pubblicazione.

Bira
mi no bevo più bira
mi no bevo più bira
mi no bevo più bira
perché bira me fa mal.
Lorenzo Pilat












venerdì 23 marzo 2012

Fino al 1998, il 23-24 marzo era via Rasella e l'eccidio delle Fosse Ardeatine

Oggi siamo considerati a tutti gli effetti un grande paese, non più com'eravamo visti prima.
Massimo D'Alema

Dal 23-24 marzo 1999
italiano
cominciò a fare rima
con Aviano.

La littérature c'est la fête

Non sarebbe male pensare qualche volta alle parole di uso quotidiano, in particolare a quelle che piovono insistentemente dall'alto, da qualche centro di potere, metterle in sequenza, senza alcun timore di usarle nelle consuete frasi fatte, per rivelarne, paradossalmente, il significato più profondo ed autentico e provare ad abbozzare nel modo più semplice ed onesto possibile lo sfondo del paesaggio del nostro presente. Ho l'impressione che molti poeti francesi contemporanei lo facciano (uno degli ultimi residui visibili del loro tradizionale modo di essere engagés), soffermandosi su tali parole evitando in ogni modo di creare immagini, e quindi di creare poesia, e senza indulgere in alcuna forma di compiacimento estetico o musicale, il che, soprattutto in francese, è un esercizio non banalissimo. Pochi di questi, tuttavia, attraverso questo umile ed apparentemente elementare e di primo acchito sterile esercizio, riescono a rivelare qualcosa, mi pare. Una in particolare, Nathalie Quintane, vi applica la tecnica del sillogismo, giungendo a delle conclusioni che, sebbene sotto gli occhi di tutti e tutte già interamente inscritte nelle premesse, generalmente si evita di trarre, probabilmente per mancanza di quel minimo di coraggio necessario a dire no ad ognuna di esse.

*


Votiamo per eleggere degli eletti che votano delle leggi.
Le leggi devono essere rispettate.
Rispettiamo le leggi votate dagli eletti per i quali abbiamo votato.

Non si deve entrare con un coltello in un istituto scolastico.
I portali metal detector rilevano i coltelli.
Installiamo dei portali metal detector all'ingresso degli istituti scolastici.

È meglio avere la maturità per entrare nel mercato del lavoro.
La maturità d'oggi non ha più alcun valore.
Quelli che hanno la maturità non valgono nulla sul mercato del lavoro.

I figli degli operai non accettano le classi preparatorie alle grandes écoles.
Chiudiamo le fabbriche, non ci sono più operai, e quindi non ci sono più figli di operai.
Le classi preparatorie non sono precluse ai figli degli operai.

Degli anarchici hanno scritto dei libri.
Degli anarchici hanno lanciato delle bombe.
Vi sono, tra di loro, delle persone che lanciano o lanceranno delle bombe.

Dei musulmani obbligano delle ragazze a portare il velo.
Le ragazze devono essere libere di non portare il velo.
Votiamo una legge che obbliga le ragazze a non portare il velo.

L'alimentazione che non ingrassa è cara.
Ci sono dei poveri.
I poveri sono ciccioni.

La letteratura non è accessibile al grande pubblico.
Il grande pubblico vuole fare baldoria.
La letteratura è baldoria.

Nathalie Quintane, Tomates, 2010

martedì 20 marzo 2012

L'exode

L'exode
Super flumina Babylonis

Les dieux ont ordonné la mort
de ces hommes afin d’être sujets
de chants pour les générations à venir.

Homère

                                                     ET VOILÀ!


Préface en prose

C’est à vous que je parle, hommes des antipodes,
je parle d’homme à homme,
avec le peu en moi qui demeure de l’homme,
avec le peu de voix qui me reste au gosier,
mon sang est sur les routes, puisse-t-il, puisse-t-il
ne pas crier vengeance!
L’hallali est donné, les bêtes sont traquées,
laissez-moi vous parler avec ces mêmes mots
que nous eûmes en partage –
il reste peu d’intelligible!

Un jour viendra, c’est sûr, de la soif apaisée,
nous serons au-delà du souvenir, la mort
aura parachevé les travaux de la haine,
je serai un bouquet d’orties sous vos pieds,
– alors, eh bien, sachez que j’avais un visage
comme vous. Une bouche qui priait, comme vous.

Quand une poussière entrait, ou bien un songe,
dans l’œil, cet œil pleurait un peu de sel. Et quand
une épine mauvaise égratignait ma peau,
il y coulait un sang aussi rouge que le vôtre!
Certes, tout comme vous j’étais cruel, j’avais soif
de tendresse, de puissance,
d’or, de plaisir et de douleur.
Tout comme vous j’étais méchant et angoissé
solide dans la paix, ivre dans la victoire,
et titubant, hagard, à l’heure de l’échec!

Oui, j’ai été un homme comme les autres hommes,
nourri de pain, de rêve, de désespoir. Eh oui,
j’ai aimé, j’ai pleuré, j’ai haï, j’ai souffert,
j’ai acheté des fleurs et je n’ai pas toujours
payé mon terme. Le dimanche j’allais à la campagne
pêcher, sous l’œil de Dieu, des poissons irréels,
je me baignais dans la rivière
qui chantait dans les joncs et je mangeais des frites
le soir. Après, après, je rentrais me coucher
fatigué, le cœur las et plein de solitude,
plein de pitié pour moi,
plein de pitié pour l’homme,
cherchant, cherchant en vain sur un ventre de femme
cette paix impossible que nous avions perdue
naguère, dans un grand verger ou fleurissait
au centre, l’arbre de la vie…

J’ai lu comme vous tous les journaux tous les bouquins,
et je n’ai rien compris au monde
et je n’ai rien compris à l’homme,
bien qu’il me soit souvent arrivé d’affirmer le contraire.
Et quand la mort, la mort est venue, peut-être
ai-je prétendu savoir ce qu’elle était mais vrai,
je puis vous le dire à cette heure,
elle est entrée toute en mes yeux étonnés,
étonnés de si peu comprendre –
avez-vous mieux compris que moi?

Et pourtant, non!
je n’étais pas un homme comme vous.
Vous n’êtes pas nés sur les routes,
personne n’a jeté à l’égout vos petits
comme des chats encore sans yeux,
vous n’avez pas erré de cité en cité
traqués par les polices,
vous n’avez pas connu les désastres à l’aube,
les wagons de bestiaux
et le sanglot amer de l’humiliation,
accusés d’un délit que vous n’avez pas fait,
d’un meurtre dont il manque encore le cadavre,
changeant de nom et de visage,
pour ne pas emporter un nom qu’on a hué
un visage qui avait servi à tout le monde
de crachoir!

Un jour viendra, sans doute, quand le poème lu
se trouvera devant vos yeux. Il ne demande
rien! Oubliez-le, oubliez-le! Ce n’est
qu’un cri, qu’on ne peut pas mettre dans un poème
parfait, avais-je donc le temps de le finir?
Mais quand vous foulerez ce bouquet d’orties
qui avait été moi, dans un autre siècle,
en une histoire qui vous sera périmée,
souvenez-vous seulement que j’étais innocent
et que, tout comme vous, mortels de ce jour-là,
j’avais eu, moi aussi, un visage marqué
par la colère, par la pitié et la joie,

un visage d’homme, tout simplement!

Benjamin Fondane, 1942

6 rue Rollin, Parigi

L'esodo
Super flumina Babylonis

Gli dei hanno ordinato la morte
di questi uomini per essere soggetti
di canti per le generazioni a venire

Omero

                                                     E VOILÀ!


Prefazione in prosa

È a voi che parlo, uomini degli antipodi,
parlo da uomo a uomo,
con il poco che mi rimane di umano,
con il poco di voce che mi resta in gola,
il mio sangue è sulle strade: possa, possa
non gridare vendetta!
L’hallali è dato, le bestie sono braccate,
lasciate che vi parli con quelle stesse parole
che ci trovammo a condividere –
resta così poco di comprensibile!

Verrà un giorno, chiaramente, in cui la sete sarà placata,
e noi saremo al di là del ricordo, e la morte
avrà ultimato i lavori dell'odio,
e io sarò un mazzo di ortiche sotto i vostri piedi,
– ebbene, allora sappiate che avevo un volto
come voi. Una bocca che pregava, come voi.

Quando un granello di polvere, oppure un sogno,
mi entrava nell'occhio, quest'occhio piangeva un po' di sale. E quando
una spina fastidiosa mi graffiava la pelle,
ne usciva un sangue rosso proprio come il vostro!
Certo, proprio come voi ero crudele, avevo sete
di tenerezza, di potenza,
d'oro, di piacere e di dolore.
Proprio come voi ero cattivo e pieno d'angoscia
sicuro nella pace, inebriato nella vittoria,
e titubante, scosso nell'ora della sconfitta!

Sì, sono stato un uomo come gli altri uomini,
nutrito di pane, di sogno, di disperazione. Eh, sì,
ho amato, ho pianto, ho odiato, ho sofferto,
ho comprato dei fiori e non ho sempre
pagato ciò che dovevo. La domenica andavo in campagna
a pescare, sotto lo sguardo di Dio, dei pesci irreali,
mi immergevo nel fiume
che cantava nei giunchi e mangiavo patatine fritte
di sera. Dopo, dopo tornavo a casa a dormire
stanco, col cuore stremato e pieno di solitudine,
colmo di pietà per me stesso,
colmo di pietà per l'uomo,
cercando, cercando invano in un grembo femminile
quella pace impossibile che avevamo appena
perso, in un grande frutteto al cui centro
fioriva l'albero della vita…

Ho letto come voi tutti i giornali, tutti i libri,
e non ho capito niente del mondo
niente dell'uomo,
per quanto mi sia capitato spesso di sostenere il contrario.
E quando la morte, la morte è arrivata, forse
ho fatto finta di sapere cos'era ma ora
vi posso davvero dire
che mi è entrata negli occhi stupiti,
stupiti di capire così poco –
magari voi avete capito meglio di me?

Eppure, no!
non ero un uomo come voi.
Voi non siete nati sulle strade,
nessuno vi ha gettato nella fogna i vostri piccoli
come gatti ancora senz'occhi,
voi non avete errato di città in città
braccati dalla polizia,
voi non avete conosciuto i disastri all'alba,
i vagoni bestiame
e il singhiozzo amaro dell'umiliazione,
accusati di un delitto che non avete commesso,
di un assassinio in assenza di un cadavere,
cambiando nome e volto,
per non portar con sé un nome deriso
un volto usato da tutti
come una sputacchiera!

Verrà un giorno, senza dubbio, in cui queste righe
saranno davanti ai vostri occhi. Questa poesia non domanda
nulla! Dimenticatela, dimenticatela! È solo
un grido che non si può mettere in una poesia
perfetta, mica avevo il tempo di finirla!
Ma quando calpesterete questo mazzo di ortiche
che ero stato io, in un altro secolo,
in una storia per voi ormai trapassata,
ricordatevi solo questo: ero innocente
e, proprio come voi, mortali in quel giorno
avevo avuto anch'io un volto segnato
dalla rabbia, dalla pietà e dalla gioia,

un volto d'uomo, semplicemente!

In realtà, Alcinoo dice ad Ulisse che "gli dei filarono la rovina per gli uomini perché avessero anche i posteri il canto".
Vichy e il collaborazionismo stanno ancora ben chiusi nei libri, mentre sulle targhe non lasciano ancora segno: scritture sul ghiaccio.
Voilà quoi.

domenica 18 marzo 2012

In quel luogo

GB - E poi cosa fai qui? In fondo fai una vita abbastanza banale. Eri abituato ai jet. Adesso sei tornato...
NR - Alla bicicletta.
GB - Ma nooo, alla bevuta. Ho visto stasera, siamo stati in quel luogo: Pina dei porchi, come si chiama... sembrava un dopolavoro jugoslavo, bere e giocare alla briscola. L'unica cosa di differente era questa: il regolamento era scritto in un triestino che sembrava di Svevo, meraviglioso, tradotto da altre lingue, no?

Da un'intervista di Gianni Brera a Nereo Rocco a Trieste, nel 1974.

Pina dei porchi era l'osteria della mia bisnonna. Modestamente.

Le dieci e venticinque


Questa potrebbe tranquillamente essere la storia di un orologio. È un orologio che si fermò alle dieci e venticinque di mattina del 2 agosto 1980, poi di nuovo ad un certo punto nel 1995 e poi di nuovo nell'agosto dell'anno scorso. Ritorna sempre a quell'ora: le dieci e venticinque.
È l'orologio nell'angolo in alto a destra di questa fotografia. Da una fotografia non si riesce a capire se l'orologio si sia fermato, e siccome appare non danneggiato, si potrebbe pensare che fissi il momento in cui è stata scattata la foto. Ma non è così. Fissa il momento in cui scoppiò la bomba.

23 chili di nitroglicerina, T4 e composto B in una valigia abbandonata nella sala d'attesa della seconda classe dell'ala occidentale della stazione dei treni di Bologna. Una bomba concepita per provocare il massimo impatto, non solo sull'edificio – l'intera ala fu distrutta dall'esplosione, assieme al treno Ancona-Chiasso che era in attesa della partenza dal binario più vicino – ma anche in termini di numero di vittime. Una mattina di sabato all'inizio del mese delle vacanze in uno dei nodi ferroviari più trafficati del paese, e la sala d'attesa della seconda classe, dove si sarebbe trovata la massima concentrazione di persone. La bomba ne uccise 85 e ne mutilò o ferì più di 200. La forza dell'esplosione fu tale che di una delle vittime, Maria Fresu, non si trovarono resti. Stava viaggiando con degli amici, i cui corpi furono recuperati. E anche con sua figlia, che aveva tre anni, ma tutto quel che rimase di Maria Fresu fu una manciata di frammenti sparsi. Era stata disintegrata.

Chiaramente, questa non è la storia dell'orologio che si fermò alle dieci e venticinque di mattina del 2 agosto 1980, come se anch'esso fosse stato colpito dallo shock. È la storia della gente coinvolta: di quelli all'interno della stazione dei treni dove la bomba scoppiò, di quelli che accorsero per unirsi ai soccorritori, insufficienti ed impreparati, di quelli che confezionarono la bomba e di quelli che la piazzarono (che non sono necessariamente gli stessi) e, più tardi, di quelli che fabbricarono le prove per depistare le indagini e poi degli inquirenti che, lentamente e  faticosamente, setacciarono le prove, sia quelle autentiche sia quelle artefatte, e alla fine trovarono alcuni, ma non tutti i colpevoli. Perché, in fin dei conti, questa è una storia eminentemente italiana: una storia di occultamenti, delusioni e collusioni, una storia di istituzioni parallele allo Stato o nascoste all'interno dello Stato, il cui compito fu quello di assicurare che non si sarebbe mai trovata la verità, tutta la verità. E senza la verità, senza la giustizia – come fu detto nel primo anniversario della bomba – la storia stessa diventa priva di senso.

Ci sono voluti quindici anni per condannare due dei tre esecutori materiali dell'attentato – i terroristi neofascisti Giusva Fioravanti e Francesca Mambro – assieme agli addetti dei servizi segreti militari e al capo della loggia massonica P2 responsabili di una serie di operazioni di occultamento via via più elaborate e, in ultima analisi, coronate da successo. È in non piccola parte grazie a quegli sforzi che conosciamo esecutori e modalità, ma non sappiamo ancora su ordine di chi e perché gli esecutori agirono. La bomba di Bologna è, a questo riguardo, il punto culminante di quello che i cronisti e gli storici chiamano la strategia della tensione, ma anche il suo aspetto più inquietante e terribile. Non era il 1969, l'anno in cui fu inaugurata tale strategia. Nel 1980, lo stato italiano non sembrava più vulnerabile e la necessità di incutere paura tra la popolazione per sedare i movimenti rivoluzionari e le lotte operaie da una parte, e di andare incontro alla richiesta di interventi autoritari dall'altra, avevano quasi perso tutta la loro urgenza. Eppure fu in quel momento che fu commessa la strage più grave. L'attentato alla stazione di Bologna uccise più persone delle stragi di piazza Fontana, della questura di Milano, di Gioia Tauro, dell'Italicus e di piazza della Loggia messe assieme. Fu l'atrocità che incluse tutte le altre atrocità, e tuttavia rimase priva del movente politico, vale a dire del legame – per quanto folle, per quanto criminale e orribile – col presente.

Massacro per il gusto del massacro, questa è forse l'unica forma di terrorismo che ne meriti il nome. E questo io ricordo prima di tutto di quegli anni. Esiste qualcosa di più profondamente sconvolgente, nella vita di un bambino, che leggere la paura sul volto dei propri genitori, degli adulti? Avevo nove anni quando ebbe luogo l'attentato di Bologna. Stavamo passando le vacanze in Jugoslavia con amici. Recuperammo un giornale italiano, forse non era nemmeno l'indomani, ma il giorno dopo ancora, tuttavia la costernazione e la paura provata dai miei genitori e dagli altri, me le ricordo bene.
Questa non è la storia di un orologio. Non potrebbe esserlo. È la storia di Maria Fresu, che alle dieci e venticinque del 2 agosto del 1980 semplicemente smise di esistere, e potremmo anche non conoscerne mai il motivo. È la storia di sua figlia di tre anni e delle altre vittime e dei feriti e dei loro cari, di quelli che per più di tre decenni hanno lottato e continuano a lottare per la verità e la giustizia che sono state loro negate. L'associazione dei parenti delle vittime della strage della stazione di Bologna è un microcosmo della società italiana di quegli anni, costituito dalle persone il cui impegno non scaturì dalla condivisione di un comune substrato politico o ideologico, ma nella più tragica e casuale delle circostanze (quasi letteralmente ognuno di noi avrebbe potuto passare per la stazione, quel giorno). E da quelle circostanze crebbe la determinazione di non farsi scappare anche quelle carogne, di esercitare una maggiore pressione in quei primi anni in cui le indagini stavano per essere abbandonate, e poi, ancora una volta, dopo la grottesca sentenza di assoluzione del 1990, che i giudici della Corte di Cassazione che istituirono la revisione del processo chiamarono in seguito ‘illogica e priva di coerenza’. Eppure è tanta la parte che ignoriamo di quel massacro, così come di quelli che l'avevano preceduto. Quasi l'unico elemento stabilito con certezza giuridica è il coinvolgimento di settori dello Stato negli occultamenti e nei depistaggi. Così, forse, è questa la cosa più vicina al movente di cui disponiamo. Ragion di stato. Per il bene dello Stato.

E così questa potrebbe essere anche la storia di quell'orologio, perché se si deve immaginare che per i membri dell'associazione il tempo si fermò davvero alle dieci e venticinque del 2 agosto 1980, allora forse si può dire lo stesso per le nostre istituzioni democratiche. Non che sia stato sempre così, per quello stesso orologio. Pochi mesi dopo l'attentato era stato riparato, però la maggior parte delle persone pensavano che non lo fosse stato – questo è il punto in cui la storia diventa un po' particolare – e agli amministratori della stazione si continuò a chiedere che fosse puntato alle dieci e venticinque per poter fare delle foto o in occasione delle commemorazioni, il che risultò essere una faccenda piuttosto complicata, per cui, quando il meccanismo si ruppe, nel 1995, si colse l'opportunità di non ripararlo, e le lancette furono riportate alle dieci e venticinque, dove rimasero fino all'agosto dell'anno scorso. Fu allora che l'orologio venne riparato una seconda volta. Qualcuno si era lamentato, anche se in realtà delle lamentele c'erano sempre state: non c'è alcuna targa al di sotto dell'orologio, e così alcune persone, del tutto comprensibilmente, possono credere che sia funzionante, perdendo occasionalmente il loro treno. Ma quella volta l'amministrazione cedette e così l'orologio fu rimesso in servizio, il che suscitò ancora più lamentele da parte dell'associazione dei familiari delle vittime e da parte di tutte le persone che pensavano che non avrebbe dovuto essere ripristinato, e così, circa un mese dopo, le lancette furono riposizionate alle dieci e venticinque ancora una volta, e in quella posizione rimangono. Almeno per ora.

L'orologio è un memoriale per caso e suo malgrado, ovvero una metafora calzante del modo in cui tali crimini della nostra storia sono ricordati, vale a dire ad intermittenza, con esitazione, e fintanto che non sia troppo sconveniente. Fioravanti e Mambro – che anche prima degli eventi del 2 agosto 1980 si erano resi responsabili, tra gli altri, di una dozzina di omicidi e per aver commissionato l'omicidio del giudice inquirente Mario Amato – sono fuori dal carcere e vivono vite rispettabili, scrivendo libri e lavorando con l'organizzazione non governativa Nessuno tocchi Caino, che si oppone alla tortura e alla pena di morte. Non hanno mai riconosciuto il loro ruolo nell'attentato, tanto meno nominato i suoi promotori, e sono rimasti in carcere sedici anni più dieci di libertà vigilata, in seguito ad una sentenza che aveva comminato 8 ergastoli più 134 anni e 8 mesi di reclusione  (Fioravanti) e 9 ergastoli più 84 anni e 8 mesi di reclusione (Mambro). Anche queste sentenze di condanna quasi comicamente iperboliche, nonché il divario rispetto al tempo effettivamente trascorso dietro alle sbarre, suggeriscono una nozione del tempo estremamente elastica da parte del nostro sistema giudiziario. L'orologio collocato sull'ala occidentale della stazione dei treni di Bologna non è l'unico a funzionare ad intermittenza.

Ma quello che mi scolvolge non è il fatto che questi fedeli soldati semplici siano a piede libero, non la cosa in sé. L'affronto di gran lunga più grave è che non si siano tratte le conclusioni storiche e politiche da tutto quello spargimento di sangue, e che tutto quello che conoscevamo, tutto quello di cui avevamo ampie prove non sia stato mai riconosciuto in modo ufficiale: nella fattispecie, che ci fossero alcuni in posizioni di potere che considerarono quelle stragi come necessarie per la conservazione dello Stato, e che quindi le nostre istituzioni pubbliche come esistono oggi non si possano più dire fondate sui principi dell'antifascismo, né su una risposta democratica e civile al terrorismo di sinistra e di destra degli anni '70, quanto piuttosto su una serie di azioni di repressione ed omicide finanziate dallo stato, concepite per proteggere e cementare le strutture del potere esistenti. L'attentato alla stazione di Bologna fu la più spettacolare di queste azioni, fu la lezione finale della brutalità richiesta per mantenere la pace: ottantaquattro corpi dovettero essere straziati, distrutti o ridotti a pezzi. L'ottantacinquesimo fu disintegrato. Un'esplosione. Un fermo immagine. Per tutte quelle vite, e nella nostra storia, sono sempre e saranno sempre le dieci e venticinque.

*
Fin qui Giovanni, che ringrazio. Io ho solo due cose da aggiungere: un link alla poesia di Zanzotto dedicata a Maria Fresu ed un pezzo che Aldo Giannuli, nel suo "Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro", che non solo al caso Moro è dedicato, giustamente si augurerebbe venisse incluso nei libri di testo scolastici italiani. Si tratta di una lettera-capolavoro di Andreotti, scritta il 4 ottobre 1978 in risposta all'interpello del procuratore della Repubblica di Roma Giovanni Di Matteo in merito ai tentativi di colpo di stato, tra i quali il golpe Borghese e il caso Rosa dei venti:
[...] in risposta all'interpello del 22 agosto 1978 (Rgpm 298/76-c) comunico che nessuna organizzazione di militari e civili ha o può avere compiti istituzionali di carattere politico.  
Ad alcuni uffici del disciolto Servizio Informazioni della Difesa era demandato il coordinamento e la pianificazione di attività operative inerenti la sicurezza del paese.
Nessuna delle deviazioni ipotizzate dall'interpello può aver trovato giustificazione nell'esigenza di tutelare il superiore interesse politico-militare dello Stato.
Tutti i fatti conosciuti dall'autorità di governo, inerenti sospette collusioni di singoli militari con gruppi eversivi sono stati tempestivamente riferiti all'Ag nel corso dei procedimenti citati dalla S.v.

Car nos no em del mon ni-l mon no es de nos

Si l'on voulait, en quelques mots, décrire le destin de l'hérésie médiévale dite cathare, ce serait par l'image d'un fossé qui se creuse.
Anne Brenon, Les cathares, Albin Michel, 2007

Payre sant, Dieu dreyturier de bons sperits,
qui anc no falhist, ni mentist, ni errest, ni duptest,
per paor de mort a pendre al mon de dieu estranh,
car nos no em del mon ni-l mon no es de nos,
e dona nos a conoiscer so que tu
conoyshes et amar so que tu amas.

Padre santo, dio giusto degli spiriti buoni,
che mai sbagli né menti né erri né dubiti,
per paura della morte da prendere al mondo del dio estraneo,
perché noi non apparteniamo al mondo e il mondo non ci appartiene,
facci conoscere quello che tu
conosci ed amare quello che tu ami.

Preghiera catara, in occitano, dell'inizio del XIV secolo.

Jordi Savall, Il regno dimenticato: la tragedia catara

I luoghi che ho visto non sono moltissimi e, per lo più, sono concentrati in Europa. Mi mancano del tutto ben tre continenti e mezzo: l'Australia, l'Asia, l'Africa e l'America latina. Anche dell'Europa e persino dell'Italia non ho visto moltissimo, solo quel tanto che basta per comprendere dove mi sento ospite e dove mi sento a casa o, per meglio dire, per comprendere dove mi sento meno ospite, la condizione di ospite essendo condizione essenziale della mia vita, almeno di quella passata fin qui. Se dovessi scegliere il luogo dove vivere, tra quelli che ho visto, mi verrebbe naturale pensare alla Germania, dove mi sento di casa anche se sto progressivamente perdendo la scioltezza e la fluidità con cui ne parlavo la lingua, e mi verrebbe naturale pensare ad un posto non lontano dal confine con la Polonia: per respirare l'aria dell'est, che è l'aria della mia infanzia, per ritornare a vivere a fianco di una frontiera, di cui a Parigi non c'è purtroppo traccia, per avvicinarmi il più possibile, anche geograficamente, ad uno dei più grandi buchi neri della cultura europea: non è l'unico, chiaramente - quanto spesso dedichiamo un minimo pensiero ai catari, per esempio, al loro non appartenere a questo mondo, al loro essere stati letteralmente annientati, al loro essere scomparsi dal nostro mondo senza quasi lasciare traccia? - , solo il più vicino a noi nel tempo.

E pensai ai miei parenti,
i parenti che non avevo mai incontrato. Che per un po' di tempo
rimasero sospesi sopra le pianure tedesco-polacche, in forma di
polvere e cenere.
Forse è per questo che volevo guardare, semplicemente
osservare, per mesi, com'era il cielo sopra Berlino.

Szilárd Borbély

Quanto mi piacerebbe provare ad offrire qualche altro verso di Borbély, se solo ne potessi trovare una traduzione più estesa. Nemmeno con l'originale ho avuto fortuna, perché ne ho trovato solo i due versi finali:

Talán ezért akartam nézni, csak
figyelni hónapokig, hogy milyen Berlin fölött az ég.

È anche per questo, oltre che per i suoi rimandi sia ai passages di Benjamin sia a Kafka, che, prima o poi, riprenderò a studiare l'ungherese.

Per biechi motivi personali, come tutto il resto: link, link, link, link, link.

venerdì 9 marzo 2012

Tempo - n. 103

Da qualche parte, più di qualche volta (102, per la precisione), ho già fatto emergere la mia ossessione di girare intorno a singole parole chiave: una di queste è il tempo. Ciclicamente, vi ritorno. Al tempo passato, su cui mi viene più naturale riflettere e quindi scrivere, e al tempo presente, di cui posso scrivere solo quando è passato, non fosse che appena qualche minuto dopo il suo essere presente, come nel caso del momento in cui mi sono messa a scrivere che da qualche parte, più di qualche volta (102, per la precisione), ho già fatto emergere la mia ossessione di girare intorno a singole parole chiave: una di queste è il tempo... ed ecco che qui salta fuori dal mio passato, inaspettata solo fino a qualche minuto fa, la voce roca di mio nonno Romeo, uomo di cultura dialettale e quindi esclusivamente orale (e manuale, naturalmente), cultura di tempi ciclici, sia nella vita sia nella fabula della vita. Raccontava mio nonno a mia madre bambina:

- Questa 'a è 'a storia de Sior Intento
che dura poco tempo e mai no se distriga
vutu che te 'a conte o vutu che te 'a diga?
- Che te me 'a conte!
- Questa 'a è 'a storia de Sior Intento
che dura poco tempo e mai no se distriga
vutu che te 'a conte o vutu che te 'a diga?
- Che te me 'a diga!
- Questa 'a è 'a storia de Sior Intento
che dura poco tempo e mai no se distriga
vutu che te 'a conte o vutu che te 'a diga?
...


Al futuro penserò un'altra volta, quando si sarà trasformato in passato.

*
Os mortos de sobrecasaca

Havia a um canto da sala um álbum de fotografias intoleráveis,
alto de muitos metros e velho de infinitos minutos,
em que todos se debruçavam
na alegria de zombar dos mortos de sobrecasaca.

Um verme principiou a roer as sobrecasacas indiferentes,
e roeu as páginas, as dedicatórias e mesmo a poeira dos retratos.
Só não roeu o imortal soluço de vida, que rebentava
que rebentava daquelas páginas.

Carlos Drummond de Andrade

Mãos dadas

Não serei o poeta de um mundo caduco.
Também não cantarei o meu futuro.
Estou preso à vida e olho meus companheiros.
Estão taciturnos mas nutrem grandes esperanças.
Entre eles, considero a enorme realidade.
O presente é tão grande, não nos afastemos.
Não nos afastemos muito, vamos de mãos dadas.

Não serei o cantor de uma mulher, de uma história,
não direi suspiros ao anoitecer, a paisagem vista da janela,
não distribuirei entorpecentes ou cartas de suicidas,
não fugirei para as ilhas nem serei raptado por serafins.
O tempo é minha matéria, o tempo presente, os homens presentes,
a vida presente.

Carlos Drummond de Andrade


I morti in redingote

C'era in un angolo della sala un album di fotografie insopportabili,
alto molti metri e vecchio infiniti minuti,
in cui tutti si curvavano
per la gioia di burlarsi dei morti in redingote.

Un verme cominciò a rodere le redingote indifferenti,
e rose le pagine, le dediche e persino la polvere dei ritratti.
Solo non rose l'immortale singhiozzo della vita, che scoppiava
che scoppiava da quelle pagine.

Tenendoci per mano

Non sarò il poeta di un mondo caduco.
Non canterò nemmeno il mio futuro.
Son tutto preso dalla vita e guardo i miei compagni.
Sono taciturni ma nutrono grandi speranze.
Tra loro, considero l'immensa realtà.
Il presente è così grande, non ci allontaniamo.
Non ci allontaniamo molto, camminiamo tenendoci per mano.

Non sarò il cantore di una donna, di una storia,
non dirò dei sospiri al calar della notte, del paesaggio visto dalla finestra,
non distribuirò droghe o biglietti di suicidi,
non fuggirò verso le isole né sarò rapito da serafini.
Il tempo è la mia materia, il tempo presente, gli uomini presenti,
la vita presente.

domenica 4 marzo 2012

Über die Art der Italiener, zu diskutieren

Einerseits oberflächlich.

Aber auf der anderen Seite mit einem sicheren Instinkt dafür, daß »aufhören« bei allen guten Dingen ein »abbrechen« sein muß. So wie man willkürlich (schließlich) beim Malen eines Bildes, beim Dichten einer Dichtung ein Ende setzt, so tun sie es [,] aus einer tiefen Erfahrung vom Wesen des künstlerischen Verhaltens heraus, beim Diskutieren. Und in der Tat ist merkwürdig, wie die »Lehre« eines unterbrochenen, abgebrochenen Gesprächs einem nachläuft wie ein Hündchen, das einen verlor. Während man gerade da zuletzt mit leeren Handen steht, wo man bis ans Ende gegangen ist. - Man denkt bei diesem [A]bbrechen auch an die Bauweise der Süditaliener: Neubauten halbvollendet lange stehen zu lassen. Auch an die pragmatische Gesinnung: Diskutieren doch zuletzt als eine zu nichts verpflichtende rhetorische Schule zu nehmen. Der Italiener begibt sich in die Praxis wie in seine wahre Römerheimat zurück, der Deutsche in die Diskussion wie in seine warme gotische Stube hinein. - Russische Diskussion ist durch den enormen Anteil des Kollektivs an ihr sehr verändert worden. Der Deutsche geht jusqu'au bout - der Italiener bricht ab, der Franzose endet in einer Vignette und Arabeske.

Walter Benjamin, fr 168


Del modo di discutere degli italiani

Da una parte, superficiale.

Ma, dall'altra parte, con un istinto sicuro per il fatto che »smettere«, nel caso di tutte le cose belle, debba essere un »interrompere«. Come si pone fine arbitrariamente (in fin dei conti) alla pittura di un quadro, alla composizione di una poesia, così fanno quando discutono[,] partendo da un'esperienza profonda della natura dell'attitudine artistica. E in effetti è bizzarro il modo in cui la »lezione« di un dialogo interrotto, troncato, si metta a rincorrerti come un cagnolino che abbia perso qualcuno. Proprio mentre, alla fine, nel punto in cui si è arrivati fino alla fine, ci si trova a mani vuote. - Nel caso di un'[i]nterruzione così, si pensa anche alla tecnica costruttiva degli italiani meridionali, secondo cui delle costruzioni nuove vengono lasciate a metà, incompiute, per molto tempo. Anche all'atteggiamento interiore, volto al pragmatismo, eppure discutendo alla fin fine come se si seguisse una scuola retorica priva di obblighi. L'italiano si avvia nella prassi come se tornasse al proprio autentico focolare romano, il tedesco si avvia nella discussione come se entrasse nel proprio caldo soggiorno gotico. - La discussione russa, attraverso la partecipazione enorme del collettivo, è radicalmente cambiata. Il tedesco va jusqu'au bout - l'italiano interrompe, il francese finisce in un'etichetta e in arabeschi.

Walter Benjamin, fr 168

Il mio incubo, nella conversazione italiana, era: "Il problema è un altro", attestato anche nella variante "Il punto è un altro", se escludiamo i sudori freddi che mi partivano dalla fronte al primo comparire di un "a prescindere", naturalmente. Naturalmente, poi, non intendo affatto esimermi o tirarmene fuori: non a caso, "bei allen guten Dingen" è diventato, giocoforza, "nel caso di tutte le cose belle", omettendo l'interiorità della bontà e privilegiando piuttosto l'esteriorità della bellezza.

venerdì 2 marzo 2012

Das nächste Dorf

Mit der Tiefe kommt man nicht vorwärts. Die Tiefe ist eine Dimension für sich, eben Tiefe - worin dann gar nichts zum vorschein kommt.
Bertolt Brecht
Con la profondità non si riesce ad avanzare. La profondità è una dimensione a sé, profondità per l'appunto, in cui non riesce ad apparire assolutamente niente. 

Ich erkläre B. abschließend, in die Tiefe zu dringen, sei meine Art und Weise, mich zu den Antipoden zu begeben.
Walter Benjamin
Per concludere, spiego a B. che penetrare nella profondità è il mio modo di recarmi agli antipodi.

Benjamin e Brecht a Skovsbostrand, alla periferia di Svendborg, passavano il tempo a leggere, scrivere, ascoltare la radio tedesca e austriaca e a giocare a scacchi in perfetto silenzio.
Il 29 agosto del 1934, in occasione del loro primo incontro in Danimarca, si confrontarono sull'interpretazione del testo breve di Kafka Das nächste Dorf:
Mein Großvater pflegte zu sagen: «Das Leben ist erstaunlich kurz. Jetzt in Erinnerung drängt es sich mir so zusammen, daß ich zum Beispiel kaum begreife, wie ein junger Mensch sich entschließen kann, ins nächste Dorf zu reiten, ohne zu fürchten, daß – von unglücklichen Zufällen ganz abgesehen – schon die Zeit des gewöhnlichen, glücklich ablaufenden Lebens für einen solchen Ritt bei weitem nicht hinreicht».
Il prossimo villaggio
Mio nonno aveva l'abitudine di dire: «La vita è straordinariamente corta. Ora, nel ricordo, mi si contrae a tal punto che io, per esempio, a malapena comprendo come un giovane possa decidersi ad andare a cavallo fino al prossimo villaggio senza temere - a prescindere da una disgrazia - che perfino il tempo in cui si svolge abitualmente, felicemente una vita, possa anche lontanamente bastare ad una tale cavalcata».
Non riporterò, tuttavia, le posizioni di Brecht e Benjamin a riguardo e, dati i limiti della mia comprensione da gentile, non tenterò nemmeno di presentare, a chi non lo conoscesse, il Talmud B, Eruvin 53b e le sue differenze rispetto al paradosso di Zenone. Sarò, se possibile, ancora più breve del solito e passerò rapidamente a riassumere come vedo io la questione della cavalcata.

Una possibile via di uscita al problema posto da Kafka potrebbe consistere nel rinunciare del tutto alla scelta tra la via breve e lunga e via lunga e breve di Eruvin 53b e nel farsi invece più tartaruga possibile rispetto ad Achille, nel bradipizzarsi e nel farlo al punto da scegliersi, come prossimo villaggio, il proprio villaggio, quello in cui si vive: predisporsi alla cavalcata scendendo da cavallo per farsi cavaliere di pietra.

No' stâ svolâ.
Dalongo i trae;
no' stâ cantâ,
gnanche d'istàe.

Sii piera grisa
che nissun bada,
polvere grisa
sora la strada.

Caligo fisso
che passa via,
svodo d'abisso
dopo una ssia.

No' stâ fidâte
de le to ore:
lássele scôre,
sensa voltâte.

Biagio Marin
Il non tempo del mare, 1964