venerdì 16 maggio 2014

Ici existait au XIVème siècle

(La flaida, in triestino, è una vestaglia e, in senso lato, un vestito piuttosto lungo, largo ed informe. Parola indispensabile, almeno per me.)
(Ah, e poi el mato non è un matto, ma è solo un tizio. Meno indispensabile, ma da non sottovalutare: qualsiasi tizio è un mato, il che esclude categoricamente che qualcuno possa essere normale.)

"Ici existait au XIVème siècle l'église Sainte-Claire dans laquelle à l'aube du 6 avril 1327 Pétrarque conçut pour Laure un sublime amour qui les fit immortels"- dice, tra inspiegabili virgolette, una targa ad Avignone, che non ho cercato e che stavo persino rischiando di lasciare dietro di me, ignorandola per sempre. 


Accortamene solo perché richiamata da E., che ben conosce la mia cronica predisposizione a leggere targhe (e insegne, indicazioni, piccoli annunci, avvisi di smarrimenti di felini, scarabocchi, etc.), ho varcato la porta dell'ex chiesa, per vedere che ne resta ora, tra un teatro e un giardino interno, che occupano gran parte del terreno - poco, pochissimo resta - e soprattutto per incrociare i miei passi con i loro, anche se un po' in ritardo, in un momento impercettibilmente sfasato, almeno rispetto alla scala del tempo della presenza dei dinosauri sulla terra. È tutto presente, letterariamente parlando, senza rughe o segni del tempo, è levigato, spianato, uniforme, compatto: Voglia mi sprona, Amor mi guida et scorge, Piacer mi tira, Usanza mi trasporta. Così come è presente la mia visita nella navata fattasi cortile di condominio di provincia, che ripasso ora, scrivendone, come se dovesse presentarsi da un momento all'altro il postino o il gatto dei vicini.

 
Avanzo lentamente, tra gli alberi e l'ingresso del teatro, più volte tornando indietro, verso la cappella, e canticchiando, ma molto internamente, tra fegato e milza, sull'aria di Munastero 'e Santa Chiara, tengo 'o core scuro scuro... con passo molto più rilassato e zigzagante di quello dritto e perentorio con cui Jack Lemmon entra nel monastero in Maccheroni. Guardo gli alberi, faccio un paio di foto, mi metto a pensare se Laura si sia scoperta il capo per sputare a terra, come fece Flamenca, solo qualche anno dopo. Propendo per il sì.


Rispetto alla stessa scala temporale dei dinosauri, appena qualche minuto fa stavo salendo per la prima volta un'altra scala, quella del mio liceo, intitolato allo stesso poeta e per questo ospitante una sua statua, di fattura approssimativa ma di fisionomia indiscutibile, collocata in cortile, nascosta alla strada ma ben visibile dalla scalinata interna, che ora percorro a fianco di un ragazzo con cui sto per condividere, fresco amico, anche se ancora non lo so, cinque lunghi anni della mia vita. Volge lo sguardo a sinistra, verso la vetrata, rallenta, cerca un interlocutore e trova me, cui decide di rivolgere le sue prime parole da quando ha parcheggiato il motorino sul marciapiede bucherellato da molti cavalletti prima del suo: "Ma chi xe quel mato cola flaida?"

Voglia mi sprona, Amor mi guida et scorge,
Piacer mi tira, Usanza mi trasporta,
Speranza mi lusinga et riconforta
et la man destra al cor già stanco porge;

e ’l misero la prende, et non s’accorge
di nostra cieca et disleale scorta:
regnano i sensi, et la ragion è morta;
de l’un vago desio l’altro risorge.

Vertute, Honor, Bellezza, atto gentile,
dolci parole ai be’ rami m’àn giunto
ove soavemente il cor s’invesca.

Mille trecento ventisette, a punto
su l’ora prima, il dí sesto d’aprile,
nel laberinto intrai, né veggio ond’esca.

*

Era il giorno ch’al sol si scoloraro 
per la pietà del suo factore i rai, 
quando i’ fui preso, et non me ne guardai, 
ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro. 
Tempo non mi parea da far riparo 
contra’ colpi d’Amor: però n’andai 
secur, senza sospetto; onde i mei guai 
nel commune dolor s’incomminciaro. 
Trovòmmi Amor del tutto disarmato 
et aperta la via per gli occhi al core, 
che di lagrime son fatti uscio et varco: 
però al mio parer non li fu honore 
ferir me de saetta in quello stato, 
a voi armata non mostrar pur l’arco.

*

Benedetto sia ’l giorno e ’l mese e l’anno 
e la stagione e ’l tempo e l’ora e ’l punto 
e ’l bel paese e ’l loco ov’io fui giunto 
da’ duo begli occhi che legato m’ànno; 
e benedetto il primo dolce affanno 
ch’i’ebbi ad esser con Amor congiunto, 
e l’arco e le saette ond’i' fui punto, 
e le piaghe che ’nfin al cor mi vanno. 
Benedette le voci tante ch’io 
chiamando il nome de mia Donna ò sparte, 
e i sospiri e le lagrime e ’l desio; 
e benedette sian tutte le carte 
ov’io fama l’acquisto, e ’l pensier mio, 
ch’è sol di lei; sì ch’altra non v’ha parte.

*

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi 
che ’n mille dolci nodi gli avolgea, 
e ’l vago lume oltra misura ardea 
di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi; 
e ’l viso di pietosi color’ farsi, 
non so se vero o falso, mi parea: 
i’ che l’ésca amorosa al petto avea, 
qual meraviglia se di sùbito arsi? 
Non era l’andar suo cosa mortale, 
ma d’angelica forma, et le parole 
sonavan altro, che pur voce humana: 
uno spirto celeste, un vivo sole 
fu quel ch’i' vidi; et se non fosse or tale, 
piagha per allentar d’aro non sana.

1 commento: