lunedì 17 febbraio 2014

Ad un bambino ungherese

Qualche settimana fa Le Monde ha riportato, senza che io potessi verificarlo, che una madre ungherese si sarebbe lamentata in un forum online del sistema scolastico del suo Paese, fornendo, come esempio, il voto ottenuto da suo figlio in morale. Il figlio, di 10 anni, avrebbe preso 2 su 5 perché non avrebbe saputo rispondere - almeno non secondo le attese - alla domanda: "Perché è bello vivere in Ungheria?", essendosi limitato a vantare gli spazi verdi e le pasticcerie della sua città.
Superato il naturale fastidio che genera una domanda così, al posto del bambino, direi, come prima risposta, rispetto al Paese che mi ospita, che non lo so, ché vivo in un suo punto non rappresentativo, nella pianura che Ariosto collocava ne l'ombilico a Francia, anzi nel core, e si sa che le periferie raccontano molto di più di un Paese che il suo centro. Lo direi col mio migliore accento québécois, se potessi riprodurlo al meglio: špò.
Come seconda risposta, sperando di piazzarmi, in morale, ancora più in basso del bambino ungherese, perché non c'è Orbán. E nemmeno Matteo Salvini. O Gianni Vattimo. Qui ci starebbe bene un elenco alla Rabelais, che si chiudesse, di preferenza, con Paolo Flores d'Arcais.
Ombelico ὀμφαλός nombril bugnigolo. Bugnigolo. Ecco, la parola bugnigolo giustifica, assieme ad altre parole acquisite lontano nel tempo, il solo tipo di orgoglio che provo per la ventura di essere nata dove sono nata, anche se in misura risibile, e in ogni caso non tale da cancellare il mio personale, inemendabile peccato originale, quello di condividere detta ventura con Susanna Tamaro.
Tuttavia, se proprio dovessi rispondere alla domanda in termini positivi ed assoluti, per cercare di meritarmi 0 punti secchi in morale francese, risponderei perché, in una sera di gennaio del 1852, Flaubert scrisse all'amata Louise Colet che quel che gli sembrava bello, quel che avrebbe voluto fare, era un libro su niente, un libro senza alcun appiglio esteriore, che si tenesse su da solo per la forza interna del suo stile, come la terra si regge in aria senza bisogno di essere sostenuta, un libro che non avesse quasi soggetto o almeno il cui soggetto fosse, se possibile, quasi invisibile.
Manganelli, anni fa, in un suo testo, mi ha fatto notare che nel Trecento e fino al Cinquecento non mettevano titoli alle poesie. Avevano perfetta coscienza che una poesia non parla di niente. Di che parla Chiare e fresche e dolci acque? Di niente.
Il che significa che Flaubert ha fallito e ha fallito due volte, e quindi nel migliore dei modi possibili: credendo di prefiggersi un'impresa mai tentata, gigantesca, eccezionale, nella sua nullità, l'ha fallita non solo perché il libro su niente è rimasto irrealizzato, ma anche perché l'impresa, a sua insaputa, era già riuscita a molti altri - poeti, soprattutto, da Petrarca a Ragazzoni, il poeta delle invisibilissime pagine, per nominare solo un paio di esempi italiani.
Un fallimento titanico, degno di molto rispetto, per uno nato nel Paese dell'exception culturelle o della littérature française quale pietra di paragone per tutte le altre (un giorno mi farò forza e ricopierò le parole della prefazione al primo tomo delle Opere di Kundera della Pléiade, per darne un esempio non di primissimo piano, ma abbastanza significativo, che non dovrebbe restare né dimenticato né impunito).
Anche Manganelli ha - per quanto solo parzialmente - fallito, anche se su un piano diverso, in misura in parte consapevole, data la natura provocatoria delle sue parole e dato il fine di sostenere la prosa, come unica arma contro il sillogismo sbagliato dell'universo, ed in parte inconsapevole, data l'omissione, nel suo ragionamento, della mai troppo compianta poesia didascalica. È vero che i titoli alle poesie del Trecento-Cinquecento ce li hanno messi dopo, per un'ansia di catalogazione, immagino, del tutto incapace di svolgere lo scopo prefissato, tra l'altro, se di ansia di catalogazione proprio si trattava. A due sonetti di Antonio Pucci, per molto tempo attribuiti a Dante, che mi appresto a riportare, hanno posto il titolo: Sonetto. Eppure, questi due sonetti minori parlano di qualcosa. Non parlano benissimo - a meno che, come nel mio caso, non se ne apprezzino la sonorità ed il didascalismo -, ma di qualcosa parlano. Inoltre, quel che ha più valore, in essi, tolto il velo del moralismo e dimenticato ogni riferimento al presente, che non merita un'oncia dei versi di un poeta di secondo piano come Pucci (ma gran fonditore di campane, campanaio e trombettiere), è la funzione di testimonianza di un'opera di Giotto che non esiste più, il Comune rubato da molti, e che si può però provare a ricomporre, essendo finita nel nulla, attraverso delle tracce, altrui e di Giotto stesso, come quella, involontaria, fornita dalla Giustizia e dall'Ingiustizia, due ritratti che si possono ancora vedere nella Cappella degli Scrovegni, a Padova. Oppure attraverso Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, di Vasari: E nella sala grande del podestà di Firenze dipinse il Comune rubato da molti, dove in forma di giudice con lo scettro in mano lo figurò a sedere, e sopra la testa gli pose le bilance pari per le giuste ragioni ministrate da esso, aiutato da quattro virtù che sono la Fortezza con l'animo, la Prudenza con le leggi, la Giustizia con l'armi, e la Temperanza con le parole: pittura bella ed invenzione propria e verisimile.
Oppure, come dicevo, attraverso due sonetti di Pucci, che dedico a quel bambino ungherese, augurandogli di continuare ad apprezzare il verde e le pasticcerie della sua città e a trovare quanto prima la propria parola bugnigolo.

Omè, Comun, come conciar ti veggio
Sì dagli oltramontan, sì da' vicini,
E maggiormente da' tuoi cittadini,
Che ti dovrebbon por nell'alto seggio!
Chi più ti dê' onorar, que' ti fa peggio;
Legge non ci ha che per te si dichini:
Co' graffi, colla sega e colli uncini
Ciascun s'ingegna di levar lo scheggio.
Capel non ti riman, che ben ti voglia;
Chi ti to' la bacchetta, e chi ti scalza;
Chi 'l vestimento stracciando ti spoglia.
Ogni lor pena sopra te rimbalza;
Niuno non è che pensi di tua doglia,
O s'tu dibassi quanto sè rinalza.

Antonio Pucci

*
Se nel mio ben ciascun fosse leale,
Sì come di rubarmi si diletta,
Non fu mai Roma, quando me' fu retta,
Come sarebbe Firenze reale.
Ma siate certi che di questo male
Per tempo o tardi ne sarà vendetta:
Chi mi torrà converrà che rimetta
In me Comun del vivo capitale.
Che tal per me sta in cima della rota
Che in simil modo robando m'offese,
Onde la sedia poi rimase vuota.
Tu che salisti quando egli scese,
Pigliando assempro, mie parole nota,
E fa che impari senno alle sue spese.
Poi che giustizia vedi che mi vendica,
Deh non voler del mio tesor far endica.

Antonio Pucci

Ho una certa predisposizione ad occuparmi di niente.

2 commenti:

  1. Ma a 10 anni avresti saputo rispondere? Non dico rispondere bene: dico rispondere.

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  2. Non lo avrei saputo nemmeno allora. Probabilmente, avrei risposto così: "Chiedetelo da Monfalcone in là", influenzata com'ero allora dai racconti del nonno triestino, nato sotto l'Austria. Ricordo perfettamente un mio tema di prima media (come età ci siamo, quindi), ardentemente filoaustriaco, che la professoressa di italiano chiosò con un "non è farina del tuo sacco". Perspicace, la professoressa.

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