& tentons encore une fois d'arracher au fanatique son poignard,
& au superstitieux son bandeau
Jean-Edme Romilly, Tolérance
Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers
e tentiamo ancora una volta di strappare il pugnale al fanatico
e la benda al superstizioso
Sono andata a Visco per vedere cosa è rimasto del campo di internamento fascista per civili jugoslavi. Ci sono andata in compagnia di diverse domande, la maggior parte delle quali relative al periodo che ha seguito la fase propriamente detta fascista della storia italiana: cosa è rimasto, a quasi settant'anni dalla nascita della Repubblica? Come è stata elaborata, in tutti questi anni, l'esperienza fascista, che in nome della superiore civiltà italiana ha commesso violenze contro le popolazioni slave (e africane e anche contro parte della propria, di popolazione, ma queste sono storie che sono passate per altri campi), incendiato case, deportato civili in decine di campi di internamento - di cui Visco è stato solo un esempio - privandoli della libertà, della salute e in molti casi anche della vita? A quali conclusioni è giunta l'Italia su quella parte del proprio passato, da quando si richiama a valori diversi da quelli del regime fascista, sanciti dalla Costituzione più bella del mondo, come ha osservato quel fine costituzionalista che è Roberto Benigni?
Tornandomene a casa, la sola risposta che sono riuscita a trovare è che l'Italia, a Visco, ha lasciato passare il tempo, nient'altro che questo. Deve avere a che fare col principio di minima energia o forse con l'urgenza delle cose presenti, solitamente di carattere emergenziale, da fare nell'immediato, che tolgono spazio ad una riflessione piena sul passato, su se stessi e sul rapporto con l'altro (la riforma agraria tributaria urbanistica del lavoro della scuola delle pensioni costituzionale delle istituzioni federale la grande riforma liberale adesso! la riforma di questo è prioritaria la riforma di quest'altro va fatta subito una riforma al mese le riforme dei primi 1000 giorni, e via riformando dal 1946 ad oggi).
Tutto sembra essere infatti rimasto com'era, salvo - appunto - l'intervento del tempo nella sua doppia, ambigua accezione, nella lingua in cui ora scrivo, di tempo cronologico e tempo meteorologico, almeno da quel che si riesce ad intravvedere attraverso le aperture nelle recinzioni che costeggiano la strada che da Visco va verso Palmanova.
La caserma Sbaiz è lì, in mattoni rossi, con le sue torrette di osservazione ed i cartelli destinati al corretto utilizzo dei loro fari, testimoni delle poche, puerili difese contro la noia che devono essere state a disposizione dei soldati che vi hanno prestato servizio: "È assolutamente vietato dirigere la fase (?) del faro verso i veicoli in transito sulla strada".
Al tutto si è aggiunto anche dell'altro: un campo da tennis, edifici il cui uso non sono riuscita ad identificare, una sede della Protezione civile, alcune sedi di imprese, edili e di trasporti, una pista ciclabile che segue il vecchio campo per un lungo tratto.
Come omaggio a memoria degli internati, dopo settant'anni potenzialmente disponibili per studiare e diffondere la storia del campo per poterla integrare nella memoria viva del Paese, ma anche, volendo - e non si è voluto - per identificare e punire i responsabili della sua ideazione e della sua gestione, anni invece lasciati passare uno dopo l'altro invano, una ghirlanda ormai secca appesa ad un palo, che ben si presterebbe ad una metafora dell'Italia e su cui invece non ho alcuna intenzione di insistere, se non per dire che per istinto mi verrebbe da chiederne la rimozione, per un minimo di decenza e rispetto, se non si finisse però inevitabilmente per offendere le mani, del tutto probabilmente slovene (v. Novice, Visco, 11. oktober 2013 e v. qui), cui l'Italia deve aver gentilmente concesso di posarla.
Se si allarga la limitata visione che si può trarre oggi del campo di Visco alle parole spese sul suo conto, ci sono anche altre ghirlande, se possibile ancora più secche:
Il Presidente della regione, che, diversamente da me, ritiene che a Visco non ci sia più niente, è pieno di buona volontà, ma, per sua stessa implicita ammissione, del tutto impotente. Debora Serracchiani davanti al cancello chiuso restituisce concretamente, in forma di immagine, l'idea della debolezza del potere ufficiale. Se in settant'anni si fosse persa la memoria del campo di internamento, cosa che non è, perché il campo non è stato demolito, perché i giornali di tanto in tanto lo ricordano attraverso le singole persone, quali Ferruccio Tassin o Boris Pahor, che se ne occupano con caparbietà, perché gli sloveni ed i croati non lo dimenticano, perché la Serracchiani ogni tanto ci va e ne parla, sarebbe paradossalmente meglio. In questa ipotesi, potremmo attribuire alle istituzioni delle omissioni più o meno gravi, fino, nella peggiore delle ipotesi, una cosciente volontà di oblio, come in molti altri esempi di misfatti della storia italiana. Invece le istituzioni ci sono, si esprimono, si sbracciano, si rammaricano, si fanno ritrarre sui luoghi storici e condividono i propri video su YouTube, ma non servono a nulla. Se mai un giorno ci sarà un memoriale, sarà in primo luogo grazie alla perseveranza di singole persone come Tassin, non all'iperattivismo mediatico del partito democratico, che dal Friuli Venezia Giulia a Roma sembra sempre di più l'incarnazione del verso delle Elegie Duinesi in cui Rilke scrive del Tun ohne Bild, del fare senza disporre di una visione, dell'agire alla cieca - sempre riformando, s'intende.
Non è sempre così, tuttavia, perché non è vero, come comunemente si crede, che l'Italia non abbia memoria o non abbia vocazione alla memoria (il concetto di n'avoir pas la vocation come negazione assoluta me l'ha insegnato involontariamente il francese più triestino che abbia mai incrociato, uno che, elegantemente, non aveva vocazione a - e non semplicemente voglia di - intraprendere nessuna attività umana che odorasse vagamente di lavoro).
In effetti, quando si tratta di ricordare chi si è reso responsabile di soprusi e violenze grandi e piccole, alcune istituzioni sono molto efficaci e capaci di Tun mit Bild.
Come già ricordato tempo fa, l'ex omologa della Serracchiani alla regione Lazio ha concesso al comune di Affile il finanziamento di un mausoleo al generale Graziani: in seguito allo sdegno della stampa, anche internazionale, l'attuale Presidente del Lazio ha dichiarato di voler interrompere il finanziamento, con la conseguenza, probabilmente, che il mausoleo resterà lì, in tutto il suo splendore.
Non si contano poi le volte che si leggono notizie di assessori comunali desiderosi di intitolare una via ad Almirante.
Più modestamente, qualche anno fa il comune di Novara, su iniziativa dell’Associazione Italiana Maestri Cattolici di quella città, ha intitolato un'area verde a Primo Boccaleri
Nato a Piovera (AL) il 24/7/1909 - morto a Novara il 17/10/1965.
Uomo di cultura, educatore, sensibile, capace di trasformare i valori dell’uomo in singoli percorsi educativi. Cittadino di spiccata vocazione umana e sociale.
E pure di altre spiccate vocazioni, il maestro, non si sa se omesse o se finite nel dimenticatoio dell'associazione o se semplicemente ignorate da quest'ultima e dal comune di Novara, perché Boccaleri fu anche e soprattutto un fervente fascista, secondo lo storico Christopher Duggan in Fascist Voices: An Intimate History of Mussolini's Italy e anche secondo la Fondazione dell'Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, che ne conserva il diario. Secondo Duggan, in seguito all'invasione della Jugoslavia del 1941, Boccaleri accettò con entusiasmo un posto di maestro a Torrette, sulla costa croata, nonostante la sua famiglia avesse tentato di dissuaderlo, in nome di una grande missione per la sua Patria ed un imperioso comando fascista a svolgere appieno il suo dovere e a qualsiasi costo: "Duce, insegnerò qui non solo la nostra dolce lingua, ma anche i nostri ideali: ad ogni costo". Dal racconto di Duggan, si capisce che le lezioni di Primo Boccaleri
- Maestro -
erano intese come lezioni di civilizzazione a bambini intrinsecamente non civilizzati ("non hanno nemmeno un senso di civiltà"), sporchi, brutti e cattivi, in un contesto quotidiano di prevaricazione linguistica e politica di cui Boccaleri fu, assieme a molti altri italiani, parte attiva nel suo ruolo di educatore, per usare le parole del comune di Novara, non risparmiandosi, tra l'altro, sentimenti di vivo rammarico per non potersi unire alla Milizia nelle operazioni armate, negli assassini e nella distruzione delle case di coloro che non si piegavano all'occupazione fascista.Sono andata a farmi un giro anche lungo le strade attorno al parco "Primo Boccaleri" di Novara, per quanto solo tramite lo Street View di Google Maps, e ancora in compagnia delle stesse domande che mi hanno portata a Visco, ma sono poi tornata con una sola risposta nella realtà del mio appartamento, in un Paese in cui nemmeno cinque Repubbliche ed altrettante Costituzioni repubblicane sembrano essere bastate per assumere appieno le responsabilità passate, dall'affaire Dreyfus al regime di Vichy e da questo alla guerra d'Algeria, e per essere in grado di scongiurare possibili derive nazionalistiche ed antisemite: una sola risposta fattasi, a questo punto, definitivamente ritornello:
Primo Boccaleri
- Maestro -
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