L'influenza
del pensiero cristiano nella storia europea è un dato di fatto, e quindi fuori discussione. Numerosi, tuttavia, volendo, sarebbero gli argomenti da sottoporre all'attenzione di coloro, altrettanto numerosi, che avrebbero voluto inserire nel preambolo della Costituzione europea il riferimento alle radici cristiane dell'Europa: un falso storico, oltre che un'ingerenza in un trattato laico, concepito per tutelare cittadini europei, e non cristiani europei. Omettendo i Papi, che svolgono il loro mestiere, e le gerarchie ecclesiastiche in generale, ne ricordo solo uno, Marcello Pera, che, in veste di Presidente del Senato, sentendosi in una vena particolarmente ispirata a principi liberali, ma non ad un altrettale respiro storico, si era spinto ad esprimere l'auspicio che vi si richiamassero le radici giudaico-cristiane.
Per dare supporto ad argomenti volti a liberare le radici
dell'Europa da qualsiasi monopolio, monocolore o bicolore che sia, soprattutto se posteriore alle origini della sua cultura, che fu molteplice e fu pagana, e, in seconda battuta, ma non di minore importanza, per dare a Lucrezio (e ad Epicuro e a Democrito) quel che è di
Lucrezio (e di Epicuro e di Democrito), basterebbe il ripristino di due versi due del De rerum natura.
Nel ricordare i due versi in questione, sarebbe idealmente mia intenzione resistere ad ogni inclinazione o deriva passibile di essere qualificata come anticlericale, anche se Odino sa quanto mi sia difficile. Passi quindi la chiesa di San Lorenzo in Miranda, insinuatasi nel corpo del tempio di Antonino e Faustina come un parassita. Passi l'appropriazione indebita di non poche feste pagane. Passi la promessa di una vita ultraterrena perché non ci si azzardi a sovvertire l'ordine delle cose in quella terrena. Passi l'accusa di deicidio rivolta agli ebrei. Passino le crociate. Passi l'imposizione del proprio credo a tutti i continenti. Passi il culto delle reliquie. Passino le indulgenze. Passino le braghe dipinte sui corpi del Giudizio michelangiolesco. Passino i processi a Giordano Bruno, Campanella e Galileo. Passino le stragi di eretici. Passi l'indice dei libri proibiti. Passino i roghi delle streghe. Passi tutta la Controriforma. Passi la mancata restituzione della Biblioteca Palatina a Heidelberg. Passi il Sillabo di Pio IX e passi pure la beatificazione di quest'ultimo. Passino le benedizioni dei cappellani militari a uomini mandati a morire e ad uccidere altri uomini. Passi il Concordato stipulato con l'Italia di Mussolini. Passino i silenzi durante il nazifascismo. Passi l'ospitalità concessa a Pavelić in Vaticano. Passino gli interventi nella politica italiana e non solo in quella. Passino le messe, i battesimi, i matrimoni ed i funerali celebrati a beneficio dei mafiosi. Passi la resistenza alla contraccezione e alla fecondazione artificiale e passino tutte le altre resistenze, inerzie, omissioni, silenzi, zeli ed ingerenze in territori, giurisdizioni e vite altrui*.
Passi (ma non si consegni all'oblio, se possibile) tutto, ma l'intervento, nel De rerum natura, della manina del cardinale Lambin, bibliotecario del re di Francia, che discretamente scambiò voluptas e voluntas nei versi 257 e 258 del libro II, intervento che ho potuto apprezzare con leggerissimo ritardo grazie a Heinz Wismann** (Penser entre les langues, Albin Michel, 2012) e alla sua conoscenza dei manoscritti, quello no, quello non dovrebbe passare.
256 libera per terras unde haec animantibus exstat,
257 unde est haec, inquam, fatis avolsa voluptas? 258 per quam progredimur quo ducit quemque voluntas
Lucrezio
Infine, supponendo che tutti i movimenti siano tra loro concatenati e che il
nuovo nasca sempre dal vecchio in un dato ordine, senza che gli elementi
primi, deviando, producano qualche inizio di movimento che scardini i
decreti del destino, impedendo che una causa segua un'altra
infinitamente, da dove proviene questo libero piacere accordato sulla
terra a tutti gli esseri animati, da dove proviene, dico, questo piacere
strappato ai destini, che ci fa procedere dove ci conduce la volontà?
256 libera per terras unde haec animantibus exstat, 257 unde est haec, inquam, fatis avolsa voluntas? 258 per quam progredimur quo ducit quemque voluptas
Lucrezio dopo l'intervento del cardinale Lambin
Infine, supponendo che tutti i movimenti siano tra loro concatenati e che il nuovo nasca sempre dal vecchio in un dato ordine, senza che gli elementi primi, deviando, producano qualche inizio di movimento che scardini i decreti del destino, impedendo che una causa segua un'altra infinitamente, da dove proviene questa libera volontà accordata sulla terra a tutti gli esseri animati, da dove proviene, dico, questa volontà strappata ai destini, che ci fa procedere dove ci conduce il piacere?
Il terrore della voluptas, specie se libera, condannata a finire nel corto circuito del piacere = peccato.
Porre rimedio ad un simile intervento è ormai impossibile, almeno a breve termine. Tuttavia, anche una revisione delle future edizioni e persino, fin d'ora, una minuscola doppia freccia disegnata a matita in calce ai due versi di Lucrezio nei testi già in circolazione sarebbe sempre un buono, per quanto tardivo, inizio.
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*L'elenco non è esaustivo: per esempio, per limitarsi alla materia
trattata, l'elenco non comprende il furto di un manoscritto del
De rerum natura in Germania da parte del segretario della cancelleria papale, Poggio Bracciolini, nel 1417, e la censura, da parte dell'Inquisizione, dello stesso testo quando iniziò ad essere pubblicato a stampa (prima edizione: 1473, Brescia), particolarmente severa quando ne fu pubblicata la traduzione in italiano.
**Scrive Wismann, ed è un piacere riportarlo, tanto quanto lo è stato leggerlo: "come può l'uomo godere di una così grande libera voluttà (libera voluptas) quando è incatenato dalla volontà? Ora, nella logica dell'opera di Epicuro, è la volontà che è legata al meccanismo atomico, comandata in modo assoluto da questo. La correzione di Lambino è del tutto ideologica, nella misura in cui egli interpreta la voluttà come il peccato, e la libertà come la capacità del cristiano di liberarsi dalla costrizione.
Ma come si può parlare di una libera voluttà, e non di una libera volontà? Per Epicuro (e quindi per Lucrezio), mentre la volontà è interamente comandata dal meccanismo atomico, solo la voluttà è libera nella misura in cui essa è clinamen, vale a dire lo scarto minimo che appartiene alla riflessione, una deflessione che è in effetti una riflessione. E la voluttà non sta nel compimento degli atti che la volontà bruta ci impone; essa risiede in un piccolo scarto riflessivo rispetto a questa necessità di compiere gli atti dettati. Il vero godimento non sta nell'obbedire a degli imperativi fisici, quanto nello scostarsene un po', in modo da sapere quel che si fa, in un certo qual modo. È dunque quest'idea che permette subito di capire che il clinamen non funziona solamente a livello della caduta libera degli atomi in questa sorta di grande vuoto che è all'origine di tutte le cose, ma che opera anche nel mondo costituito dagli atomi. Si può dunque cominciare ad intravvedere in che cosa consista il piacere dell'amicizia, per esempio, precisamente fondato sul fatto di discostarsi, di non aderire a quello che è necessario, di essere in una forma di gratuità che trova conforto nella convinzione condivisa nello scarto. E il lathe biôsas, il fatto di non vivere questa vita visibile, che è la vita regolata della società, con tutti i suoi rituali, e la sua maniera di conformarsi alle aspettative. La vera voluttà è discostarsene e godere di una forma di convivenza originata dalla condivisione del sentimento di non essere completamente comandati. È questa, la piccola musica epicurea.
È tanto più espressivo, per come la vedo io, di centinaia di articoli che tentano di spiegare come, nell'orizzonte dell'epicureismo, si possa parlare di libera volontà. Questo non ha nessun senso. E quindi per far collimare la tradizione epicurea con la convinzione ideologica di una visione cristiana del mondo, il cardinale non poteva fare altro che sostituire una parola con l'altra."
4) che, se proprio deve essere esposta, lo sia nella sala delle prove,
5) che non si parli né di fronte alla bara né di fronte alla tomba, al più si legga la poesia A coloro che verranno,
6) che la veglia funebre, se la si desidera, sia tenuta solo da attori,
7) che non si suoni nessuna musica,
8) che la tomba venga posta nel giardino di Buckow o nel cimitero vicino al mio appartamento nella Chausseestraße e che rechi solo il nome Brecht su una pietra.
Die Sprache hat es unmißverständlich bedeutet, daß das Gedächtnis nicht ein Instrument für die Erkundung des Vergangenen ist, vielmehr das Medium. Es ist das Medium des Erlebten wie das Erdreich das Medium ist, in dem die alten Städte verschüttet liegen. Wer sich der eignen verschütteten Vergangenheit zu nähern trachtet, muß sich verhalten wie ein Mann, der gräbt. Vor allem darf er sich nicht scheuen, immer wieder auf einen und denselben Sachverhalt zurückzukommen - ihn ausstreuen wie man Erde ausstreut, ihn umzuwühlen, wie man Erdreich umwühlt. Denn ‘Sachverhalte’ sind nicht mehr als Schichten, die erst der sorgsamsten Durchforschung das ausliefern, um dessentwillen sich die Grabung lohnt. Die Bilder nämlich, welche, losgebrochen aus allen früheren Zusammenhängen, als Kostbarkeiten in den nüchternen Gemächern unserer späten Einsicht - wie Torsi der Galerie des Sammlers - stehen. Und gewiß ist’s nützlich, bei Grabungen nach Plänen vorzugehen. Doch ist unerläßlich der behutsame, tastende Spatenstich in’s dunkle Erdreich. Und der betrügt sich selber um das Beste, der nur das Inventar der Funde macht und nicht im heutigen Boden Ort und Stelle bezeichnen kann, an denen er das Alte aufbewahrt. So müssen wahrhafte Erinnerungen viel weniger berichtend verfahren als genau den Ort bezeichnen, an dem der Forscher ihrer habhaft wurde. Im strengen Sinne episch und rhapsodisch muß daher wirkliche Erinnerung ein Bild zugleich von dem der sich erinnert geben, wie ein guter archäologischer Bericht nicht nur die Schichten angeben muß, aus denen seine Fundobjekte stammen, sondern jene andern vor allem, welche vorher zu durchstoßen waren.
Walter Benjamin
Gesammelte Schriften, IV
Dissotterrare e ricordare
Il linguaggio ci ha fatto inequivocabilmente intendere che la memoria non è uno strumento per l'esplorazione del passato, ma piuttosto il luogo in cui si annida. È il substrato del vissuto come il suolo terrestre è il substrato in cui giacciono sepolte le città antiche. Chi si sforza di avvicinarsi al proprio passato sepolto deve comportarsi come un uomo che scava. Soprattutto non deve temere di continuare a ritornare ad un solo e medesimo fatto - di disperderlo come si disperde la terra, di rivoltarlo come si rivolta il terreno. Perché
i ‘fatti’ non sono altro che gli strati che consegnano alla ricerca più meticolosa solamente quello per cui vale la pena di scavare. Vale a dire le immagini, che, liberate di tutti i contesti precedenti, risiedono come oggetti preziosi nelle stanze sobrie della nostra comprensione successiva - come i torsi nella galleria del collezionista. E certo è utile, quando si scava, procedere secondo un piano, ma è indispensabile un colpo di vanga cauto, a tentoni, nella terra oscura.
E ci si priva del meglio, se si effettua solo l'inventario dei reperti e non si riesce a designare nel suolo attuale il luogo in cui esso custodisce l'antico. Così i veri ricordi devono procedere molto meno per resoconti che designare con precisione il luogo in cui il ricercatore se ne impossessa. Quindi bisogna che il ricordo reale dia al contempo nel senso più stretto epicamente e rapsodicamente un'immagine di colui che si ricorda, come una buona descrizione archeologica non deve solo restituire gli strati da cui originano i reperti, ma prima di tutto gli altri strati attraverso cui si è dovuto precedentemente penetrare.
*
Digging
Between my finger and my thumb
The squat pen rests; as snug as a gun.
Under my window a clean rasping sound
When the spade sinks into gravelly ground:
My father, digging. I look down
Till his straining rump among the flowerbeds
Bends low, comes up twenty years away
Stooping in rhythm through potato drills
Where he was digging.
The coarse boot nestled on the lug, the shaft
Against the inside knee was levered firmly.
He rooted out tall tops, buried the bright edge deep
To scatter new potatoes that we picked
Loving their cool hardness in our hands.
By God, the old man could handle a spade,
Just like his old man.
My grandfather could cut more turf in a day
Than any other man on Toner's bog.
Once I carried him milk in a bottle
Corked sloppily with paper. He straightened up
To drink it, then fell to right away
Nicking and slicing neatly, heaving sods
Over his shoulder, digging down and down
For the good turf. Digging.
The cold smell of potato mold, the squelch and slap
Of soggy peat, the curt cuts of an edge
Through living roots awaken in my head.
But I've no spade to follow men like them.
Between my finger and my thumb
The squat pen rests.
I'll dig with it.
Seamus Heaney, Death of a Naturalist, 1966
Scavando
Tra l'indice e il pollice poggia la mia penna tozza, come una pistola nella fondina.
Sotto la mia finestra un suono netto, stridulo all'affondare della vanga nella terra ghiaiosa: è mio padre che scava. E guardo giù finché la schiena sotto sforzo si piega tra le aiuole e si rialza sfasata di vent'anni chinandosi al ritmo con cui rivoltava patate nei solchi in cui stava scavando.
Il rude scarpone si adagiava sulla lama, facendo leva col manico all'interno del ginocchio, con gesto sicuro. Scovava le lunghe cime, infossava a fondo il bordo lucente per sparpagliare le patate novelle che raccoglievamo apprezzandone al tatto la fredda durezza.
Altro che, se sapeva maneggiare una vanga, proprio come suo padre. Mio nonno era in grado di estrarre più torba in un giorno di chiunque altro in tutta la torbiera di Toner. Una volta gli portai una bottiglia di latte tappata alla bell'e meglio con della carta. Dopo essersi raddrizzato per poterlo bere, si rimise subito ad incidere e a fendere con precisione la terra, gettandosi alle spalle zolle intere e continuando a scavare alla ricerca della torba buona. Scavando.
Mi ritornano in mente il freddo odore della terra da patate rimossa, la poltiglia e gli strati di torba umida, il rumore secco dei tagli inferti dal bordo della vanga che trapassava radici vive. Io, però, non ho vanghe per seguire le orme di uomini così.
Tra l'indice ed il pollice poggia la mia penna tozza. Io scaverò con questa.
*
Non so voi, ma se io scavo, quel che trovo sono sempre ricordi sghembi. Probabilmente so solo scavare di traverso e non ho abbastanza forza nelle braccia oppure continuo a scavare nella sola terra che io conosca, rossa e scarsa, nella quale, dopo il primo strato superficiale, si incontrano subito ammassi di rocce calcaree alternate a cavità, che costringono rispettivamente a procedere a zigzag e ad arrendersi di fronte ai vuoti. La scrittura mi aiuta a preservare alcuni ricordi, ma non la loro rispondenza al vero; la scrittura si limita a rivelarne, al più, la sghembitudine, in cui non sono che dei dettagli ad essere ingranditi a dismisura, compromettendo una corretta visione prospettica d'insieme. Come il ritratto di un volto cubista, che è molto realista, in fondo, in quanto fedele alle imperfezioni della memoria di una visione, che è fatta di carenze e di eccessi. A me pare.
Per non parlare di quando mi distraggo e scavo troppo vicino al burrone che sta in fondo al campo di segale. Se mi sbilancio, precipito e addio ricordi. Ché quando non si è più bambini, Holden non accorre in aiuto, ma resta immobile, se ci si sporge troppo sul precipizio, e ribadisce la propria inerzia nei confronti degli adulti con un deciso, beffardo gesto del braccio.
Parole e musica di Paul Misraki, orchestra di Ray Ventura et ses Collegiens, 1935
Allô ! Allô ! James ! Quelle nouvelle?
Absente depuis quinze jours
Au bout du fil je vous appelle
Que trouverai-je à mon retour?
Tout va très bien,
Madame la Marquise
Tout va très bien, tout va très bien
Pourtant il faut, il faut que l'on vous dise,
On déplore un tout petit rien,
Un incident, une bêtise
La mort de votre jument grise
Mais à part ça,
Madame la Marquise
Tout va très bien, tout va très bien
Allô ! Allô ! Martin! Quelle nouvelle ?
Ma jument grise morte aujourd'hui ?
Expliquez-moi, cocher fidèle
Comment cela s'est-il produit ?
Cela n'est rien,
Madame la Marquise
Cela n'est rien, tout va très bien.
Pourtant il faut, il faut que l'on vous dise
On déplore un tout petit rien
Elle a péri dans l'incendie
Qui détruisit vos écuries
Mais à part ça,
Madame la Marquise
Tout va très bien, tout va très bien
Allô ! Allô ! Pascal ! Quelle nouvelle ?
Mes écuries ont donc brûlé ?
Expliquez-moi, mon chef modèle
Comment cela s'est-il passé ?
Cela n'est rien,
Madame la Marquise
Cela n'est rien, tout va très bien
Pourtant il faut, il faut que l'on vous dise
On déplore un tout petit rien
Si l'écurie brûla, Madame
C'est que l'château était en flamme
Mais à part ça,
Madame la Marquise
Tout va très bien, tout va très bien
Allô ! Allô ! Lucas ! Quelle nouvelle ?
Notre château est donc détruit ?
Expliquez-moi, car je chancelle.
Comment cela s'est-il produit ?
Eh bien ! Voilà, Madame la Marquise
Apprenant qu'il était ruiné
A pein' fut-il rev'nu de sa surprise
Que m'sieu l'marquis s'est suicidé,
Et c'est en ramassant la pell'
Qu'il renversa tout's les chandell's
Mettant le feu à tout l'château
Qui s'consuma de bas en haut
Le vent soufflant sur l'incendie
Le propagea sur l'écurie
Et c'est ainsi qu'en un moment
On vit périr votre jument
Mais à part ça,
Madame la Marquise
Tout va très bien, tout va très bien
Pronto? Pronto? James, quali nuove?
La chiamo al telefono
Dopo quindici giorni d'assenza
Cosa troverò al mio ritorno?
Va tutto benissimo, Signora Marchesa
Va tutto benissimo, va tutto benissimo
Tuttavia bisogna, bisogna che Le diciamo,
Lamentiamo una cosetta da niente,
Un incidente, una sciocchezza
La morte della Sua giumenta grigia
Ma a parte questo, Signora Marchesa
Va tutto benissimo, va tutto benissimo
Pronto? Pronto? Martin, quali nuove?
La mia giumenta grigia morta oggi?
Mi spieghi, fedele cocchiere
Com'è successo?
Non è nulla, Signora Marchesa
Non è nulla, va tutto benissimo
Tuttavia bisogna, bisogna che Le diciamo
Lamentiamo una cosetta da niente
È morta nell'incendio
Che ha distrutto le Sue scuderie
Ma a parte questo, Signora Marchesa
Va tutto benissimo, va tutto benissimo
Pronto? Pronto? Pascal, quali nuove?
Le mie scuderie sono dunque andate a fuoco?
Mi spieghi, capo modello
Com'è successo?
Non è nulla, Signora Marchesa
Non è nulla, va tutto benissimo
Tuttavia bisogna, bisogna che Le diciamo
Lamentiamo una cosetta da niente
Se la scuderia è andata a fuoco, Signora
È perché il castello era in fiamme
Ma a parte questo, Signora Marchesa
Va tutto benissimo, va tutto benissimo
Pronto? Pronto? Lucas!
Quindi il nostro castello è distrutto?
Mi spieghi, perché barcollo
Com'è successo?
Ebbene! Ecco, Signora Marchesa
Venuto a sapere che era rovinato
Appena si è ripreso dalla sorpresa
Il Signor Marchese si è suicidato
Ed è cadendo a terra
Che ha rovesciato tutte le candele
Mandando a fuoco tutto il castello
Che si è consumato tutto
Il vento, soffiando sull'incendio
Lo ha propagato alla scuderia
Ed è così che in un attimo
Abbiamo visto morire la Sua giumenta
Ma a parte questo, Signora Marchesa
Va tutto benissimo, va tutto benissimo
Seminario di 2 giorni: 170 partecipanti, 28 nazionalità, una ventina di relatori, nessuna finestra apribile. Ho le gambe integralmente coperte alla vista altrui da una serie di pannelli di legno. Ne approfitto per muoverle di continuo inosservata e cercare così di attenuare una sindrome a cui solo da poco tempo posso attribuire un nome in italiano, che in realtà ha tutta l'aria di essere una traduzione dall'inglese: sindrome delle gambe senza riposo, anche se io e mio padre ne soffriamo ben prima di questo conio, cui preferiamo senz'altro un'altra locuzione, quando compare, annunciando un dialettale me rosiga le gambe. Proprio mentre più acuto si fa il rosigamento, un relatore si mette a commentare una schermata in cui ha diligentemente elencato la parola "nuovo" in molte lingue, tutte europee, dal greco all'italiano allo spagnolo al francese all'inglese al tedesco al russo: gli piace evidenziarne la prossimità, la similiarità, la somiglianza. Che sputo, l'Europa, penso, e rivolgo automaticamente lo sguardo verso i 4 partecipanti cinesi e gli altrettanti turchi: incerti se distendere i muscoli in orizzontale in un sorriso largo o se contrarli in verticale, in un'espressione di stupore, si risolvono a restare interdetti, i primi appena dopo essersi mentalmente ripetuti, credo, 新 (xīn), i secondi yeni. Penso allo sputo in cui sono nata, che Magris, in modo più elegante, ma non più originale, ha chiamato microcosmo, e mi ritorna alla mente una parola vecchia, molto vecchia, che non uso mai, eppure esiste e resiste da qualche parte dentro di me. Non faccio liste, non serve, per arrivare veloce alla conclusione, azzardata, che il termine più adatto, semanticamente e foneticamente più adatto, a definire uno spilorcio, un avaro, un taccagno, un tirchio, un braccino insomma, è caìa. Dove il risparmio è assoluto, ben più estremo che nei suoi sinonimi tirado o tirà, pedocioso e spinaza, e tocca persino le consonanti, l'unica consonante sopravvissuta alla lesina provvedendo ad emanare l'indispensabile nota di secchezza ed asperità.
Der hat noch niemals eine Speise erfahren, nie eine Speise durchgemacht, der immer Maß mit ihr hielt. So lernt man allenfalls den
Genuß an ihr, nie aber die Gier nach ihr kennen, den Abweg von
der ebenen Straße des Appetits, der in den Urwald des Fraßes
führt. Im Fraße nämlich kommen die beiden zusammen: die Maßlosigkeit des Verlangens und die Gleichförmigkeit dessen, woran
es sich stillt. Fressen, das meint vor allem: Eines, mit Stumpf und
Stiel. Kein Zweifel, daß es tiefer ins Vertilgte hineinlangt als der
Genuß. So wenn man in die Mortadella hineinbeißt wie in ein
Brot, in die Melone sich hineinwühhlt wie in ein Kissen, Kaviar
aus knisterndem Papier schleckt und über einer Kugel von Edamer
Käse alles, was sonst auf Erden eßbar ist, einfach vergißt. - Wie ich
das zum ersten Male erfuhr? Es war vor einer der schwersten
Entscheidungen. Ein Brief war einzuwerfen oder zu zerreißen.
Seit zwei Tagen trug ich ihn bei mir, seit einigen Stunden aber,
ohne daran zu denken. Denn mit der lärmenden Kleinbahn war
ich durch die sonnenzerfressene Landschaft nach Secondigliano
hinauf gefahren. Feierlich lag das Dorf in der Alltagsstille. Einzige
Spur vom verrauschten Sonntag die Stangen, an denen leuchtende
Räder geschwungen, Raketenkreuze sich entzündet hatten. Nun
standen sie nackt da. Einige trugen auf halber Höhe ein Schild mit
der Figur eines Heiligen aus Neapel oder der eines Tiers. Weiber
saßen in den geöffneten Scheuern und klaubten Mais. Ich schlenderte betäubt meines Weges, da sah ich im Schatten einen Karren
mit Feigen stehen. Es war Müßiggang, daß ich drauf zuging, Verschwendung, daß ich für wenige Soldi mir ein halbes Pfund geben
ließ. Die Frau wog reichlich. Als aber die schwarzen, blauen, hellgrünen, violetten und braunen Früchte auf der Schale der Handwaage lagen, zeigte es sich, daß sie kein Papier zum Einschlagen
hatte. Die Hausfrauen von Secondigliano bringen ihre Gefäße
mit und auf Globetrotter war sie nicht eingerichtet. Ich aber
schämte mich, die Früchte im Stich zu lassen. Und so ging ich,
Feigen in den Hosentaschen und im Jackett, Feigen in beiden vor
mich hingestreckten Händen, Feigen im Munde, von dannen. Ich
konnte jetzt mit Essen nicht aufhören, mußte versuchen, so schnell wie möglich der Masse von drallen Früchten, die mich befallen
hatten, mich zu erwehren. Aber das war kein Essen mehr, eher
ein Bad, so drang das harzige Aroma durch meine Sachen, so
haftete es an meinen Händen, so schwangerte es die Luft, durch
die ich meine Last vor mich hintrug. Und dann kam die Paßhöhe des Geschmacks, auf der, wenn Überdruß und Ekel, die letzten Kehren, bezwungen sind, der Ausblick in eine ungeahnte
Gaumenlandschaft sich öffnet: eine fade, schwellenlose, grünliche
Flut der Gier, die von nichts mehr weiß als vom strähnigen, faserigen Wogen des offenen Fruchtfleisches, die restlose Verwandlung von Genuß in Gewohnheit, von Gewohnheit in Laster. Haß
gegen diese Feigen stieg in mir auf, ich hatte es eilig aufzuräumen,
frei zu werden, all dies Strotzende, Platzende von mir abzutun,
ich aß, um es zu vernichten. Der Biß hatte seinen ältesten Willen
wiedergefunden. Als ich die letzte Feige vom Grund meiner
Tasche losriß, klebte an ihr der Brief. Sein Schicksal war besiegelt, auch er mußte der großen Reinigung zum Opfer fallen; ich
nahm ihn und zerriß ihn in tausend Stücke.
Walter Benjamin
Gesammelte Schriften, IV
Fichi freschi
Non ha mai conosciuto un cibo, né lo ha mai gustato fino in fondo, chi si sia sempre attenuto a moderazione. Così se ne può conoscere tutt'al più il sapore, ma mai il provarne avidità, il discostarsi dalla strada piatta dell'appetito, che conduce alla foresta primordiale del pasto degli animali. Quando gli animali mangiano, infatti, le due cose si combinano: la dismisura della voglia e l'uniformità di quello di cui si placa. Divorare vuol dire, prima di tutto, spazzolare tutto, senza lasciare alcun resto. Non c'è dubbio che si tratta di eliminare, più che di assaporare. Come quando si addenta la mortadella come se fosse pane, si affonda in un melone come se fosse un cuscino, si lecca il caviale dalla carta crepitante, si dimentica semplicemente, dinanzi ad una forma di Edamer, tutto quello che altrimenti c'è di commestibile sulla terra. Come l'ho avvertito la prima volta? Mi capitò prima di una delle decisioni più difficili. C'era una lettera da imbucare o da strappare. Era due giorni che la portavo con me, da alcune ore, però, senza pensarci. Perché, con il chiassoso treno su binari a scartamento ridotto, attraverso un paesaggio divorato dal sole, avevo raggiunto Secondigliano. Nonostante il giorno festivo, il paese era sprofondato nella calma di un qualsiasi giorno infrasettimanale. Unica traccia della caciara della domenica, i pali ai quali avevano oscillato delle ruote luminose, erano state accese delle croci fatte di razzi. Ora erano lì, nudi. Alcuni sostenevano a metà altezza un cartello raffigurante un santo napoletano o un animale. Donne sedute nei fienili aperti, sgranando mais. Stavo gironzolando inebetito per la mia strada quando vidi stagliarsi, all'ombra, un carretto con dei fichi. Fu l'ozio, ad attrarmi, e la tendenza allo sperpero, a farmene dare un quarto di chilo per pochi soldi. La donna ne pesò ben di più. Dopo però che ebbe posato i frutti - neri, blu, verde chiaro, violetti e bruni - sul piatto della bilancia a mano, saltò fuori che non aveva carta per avvolgerli. Le casalinghe di Secondigliano portano con sé i loro recipienti e lei non era preparata ad un globetrotter. Io però mi vergognai di lasciare i frutti in asso. E così me ne andai via da lì con fichi nelle tasche dei pantaloni e nella giacca, fichi in tutte e due le mani protese, fichi in bocca. A quel punto non fui più in grado di smettere di mangiare, dovetti tentare di difendermi il più rapidamente possibile dalla massa dei frutti rotondeggianti che mi avevano assalito. Ma non si trattava più di un mangiare, quanto piuttosto di un bagnarsi, tanto l'aroma appiccicoso era penetrato attraverso le mie cose, aveva aderito alle mani ed ingravidato l'aria attraverso cui stavo portando il mio carico dinanzi a me. E poi arrivò il vertice del gusto, all'altezza del passo di montagna dove, superati nausea e voltastomaco, gli ultimi tornanti, la vista si spalancava in un inaspettato panorama del palato: un flusso insipido, piatto, verdastro di voracità che non avverte più altro se non il fluttuare a ciocche, a fibre, della polpa aperta del frutto, la metamorfosi completa del piacere in abitudine, dell'abitudine in vizio. Mi montò un odio nei confronti di quei fichi, dovevo improvvisamente sbarazzarmene, liberarmene, togliere di mezzo tutta quella materia debordante, in procinto di scoppiare, e la mangiai per annientarla. Il morso aveva ritrovato la sua volontà ancestrale. Quando staccai l'ultimo fico dal fondo della mia tasca, gli si appiccicò la lettera. Il suo destino era segnato, anche lei doveva cadere vittima del grande repulisti: la presi e la strappai in mille pezzi.
Scritto a Capri nell'estate del 1924, mi appare come un denso concentrato di contraddizioni, pulsioni contrastanti e scarti (tutte cose positive), nel loro stare in bilico tra voglia, desiderio, appagamento e nausea, tra creazione e annientamento, che tuttavia si risolvono in un percorso circolare perfetto: una lettera avvolta nel mistero, destinata a fissare in forma di parole scritte delle considerazioni e dei ricordi, molto probabilmente legati, direttamente o indirettamente, alla sua esperienza di quell'estate caprese, indirizzata ad un amico ignoto, lettera che viene strappata e non giungerà mai a destinazione, una memoria scritta che soccombe in favore del ricordo del vissuto di un istinto primordiale, che resta invece inciso in profondità, appiccicoso come un fico, nella memoria personale di Benjamin, e in quella dei suoi lettori, grazie ad una sua seconda scrittura su carta, per fortuna non strappata e giunta a pubblicazione, sulla Frankfurter Zeitung, nel 1930.
if there is an error to be made why not make it now. why wait for that unguarded moment when you have made a wrong move, decision. an act of consequence. make errors when it doesn't matter. then when it is crucial you will not drop dead of the shock of failure. the shame. you will hardly even notice any change in the circumstances surrounding you. what a democracy of effect.
two
when you sit down at your desk make sure there is only as much cleared space as is absolutely necessary for you to work on. keep those piles of diaries and notebooks, newspaper clippings, scribblers on your right and left sides; keep the dusty bottles of ink, clusters of old pens and pencils, pools of paper clips, staples, gold and cloisonne pens, special ones that you never use, in front of you. a bare desk is too shocking a reminder.
three
we rush from no-parking zones, across the road against the red lights, from crowded buses, to the wall of black post office boxes, and thrust our keys into numbered keyholes, holding our breaths until we read the omens the sight of each envelope suggests. we tremble, we sigh at the array in our hands, the glossolalia of correspondence. as we relock these boxes we turn quickly away. leaving behind a wall of tiny doors, articulate in their silences. like any wall of caskets at one of the city's crematoriums.
four
today the tv is happy talking to itself. it doesn't need me to talk to. i just turn it on. sit down somewhere else, and leave it to its own devices. i've trained mine to be independent.
five
look at those people running from the ice cream parlour to circle the person in a state of cardiac arrest by the side of the road. see how they hold their ice creams like torches as they watch the ambulance officers at work. how the ice cream runs down their palms and across their wrists like babies' bracelets. and they don't even notice.
six
see that pile of books sprawled across the bed like an odalisque. you are forced to sleep on the shelf.
seven
imagine dying with a shopping list in your hand.
eight
last week i wrote to molly dye to discover how to keep cockroaches out of light switches; this week i'm writing to discover how to keep politicians out of the letterbox.
nine
in the last year of my life i decided to take punctuation seriously.
ten
i thought the rain was being operatic until i looked out of the window and saw a woman trying to use her voice as an umbrella.
eleven
for over a year the blue plastic bag lay on the branch of the tree. window cleaners ascending the sky on silver ladders ignored it. tree pruners worked round it. giant white blossoms came and went on the branches above it. winds and storms lashed it. but still it lay in the same place. rather like someone recovering in hospital after major surgery. no one dared remove it. perhaps we were really afraid of it. then one day it had gone. and in its place was a pair of black underpants.
twelve
looking into the vegetable soup i saw my own future.
thirteen
he spoke of a body of knowledge, how he was developing one, trying to get it down on hard disc; but when he looked at his own soft body in the shopping centre's mirrors he didn't know it at all, didn't know it from a bar of soap. all the bodies passing by looked like strangers, foreign bodies. a musak voice whispered into his left ear: 'you shouldn't distract yourself by looking in mirrors'. 'i know' he nodded minutely, trying to keep his head still so that body of knowledge wouldn't rupture, have a seizure. he sensed muggers in the ether.
joanne burns
quisquilie
uno
se c'è un errore da commettere, perché non commetterlo adesso. perché aspettare quell'attimo di incautela in cui si effettua una mossa sbagliata o si prende una decisione azzardata. un atto di conseguenza. si commettano errori quando non importa. così, quando il momento sarà cruciale, non si stramazzerà per il trauma da fallimento. per la vergogna. ci si accorgerà a malapena del cambiamento delle circostanze intorno. che effetto democratico.
due
quando ci si siede alla scrivania, ci si assicuri di avere lo stretto spazio libero necessario per lavorare. si mantengano alla propria destra e alla propria sinistra le solite pile di diari e blocchi, ritagli di giornale e scarabocchi; si mantengano di fronte a sé le boccette di inchiostro coperte di polvere, mucchi di penne e matite vecchie, file di graffette, punti metallici, penne d'oro e smaltate, quelle speciali che non si usano mai. una scrivania sgombra è un promemoria troppo traumatizzante.
tre
ci affrettiamo ad attraversare strade partendo da divieti di sosta fino a fermarci al rosso dei semafori, da autobus affollati alla parete di cassette di sicurezza postali nere, ed infiliamo le nostre chiavi in serrature numerate, trattenendo il respiro finché non leggiamo i segni premonitori che la vista della busta ci suggerisce. tremiamo, sospiriamo, soppesando il plico con la mano, la glossolalia della corrispondenza. richiudendo le cassette, ce ne allontaniamo a passi rapidi. lasciando dietro di noi una parete di porticine, articolate nei loro silenzi. come qualsiasi parete di bare nei crematori della nostra città.
quattro
oggi la tv è felice mentre parla con se stessa. non ha bisogno che mi metta a parlarle. la accendo e basta. siediti da qualche altra parte e lasciala ai suoi dispositivi. ho addestrato la mia ad essere indipendente.
cinque
guarda quella gente che dalla gelateria si precipita a circondare la persona in stato di arresto cardiaco a lato della strada. guarda come tengono i loro gelati a mo' di torce, mentre guardano gli addetti dell'ambulanza al lavoro. come i gelati scorrono dai palmi e avvinghiano i polsi come braccialetti da neonati. e senza rendersene nemmeno conto.
sei
vedi quella pila di libri abbandonata sul letto come un'odalisca. ti tocca dormire sullo scaffale.
sette
immagina di morire con la lista della spesa in mano.
otto
la scorsa settimana ho scritto a donna letizia per scoprire come tenere gli scarafaggi lontani dagli interruttori della luce: questa settimana le sto scrivendo per scoprire come tenere i politici lontani dalla cassetta delle lettere.
nove
nell'ultimo anno della mia vita ho deciso di prendere la punteggiatura sul serio.
dieci
pensavo che la pioggia fosse lirica finché non ho guardato fuori dalla finestra e ho visto una donna che cercava di usare la propria voce come ombrello.
undici
per più di un anno il sacchetto di plastica blu rimase sul ramo dell'albero. dei lavavetri in ascesa nel cielo su scale d'argento lo ignorarono. dei potatori d'alberi ci lavorarono attorno. dei
fiori bianchi giganteschi comparvero e scomparvero sui rami sopra di lui. venti e tempeste lo rizzarono come una vela. eppure rimase nello stesso posto. come qualcuno che si stesse ristabilendo dopo un importante intervento chirurgico. nessuno osò toglierlo di lì. forse ne avevamo davvero paura. poi, un giorno, sparì. e al suo posto apparve un paio di mutande nere.
dodici
guardando dentro la minestra di verdure, ho visto il mio futuro.
tredici
parlò di un corpo di conoscenze, del modo in cui ne stava sviluppando uno, tentando di fissarlo su un disco rigido; ma quando guardò il proprio corpo molle negli specchi del centro commerciale, non lo riconobbe per niente, non era in grado di distinguerlo da una saponetta. tutti i corpi dei passanti sembravano stranieri, corpi estranei. una voce da musica da dentista si mise a sussurrare nel suo orecchio sinistro: 'non dovresti farti distrarre dalla visione degli specchi'. 'lo so', fece con un cenno minuzioso del capo,
cercando di mantenere immobile la testa in modo da non far fuoriuscire quel corpo di conoscenze, da non farselo sottrarre. avvertì l'odore di rapinatori nell'etere.