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mentre in disparte l’umiltà dei vinti
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C. REBORA, Framm. XXXIV
mentre in disparte l’umiltà dei vinti
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C. REBORA, Framm. XXXIV
Ce n’è uno, si chiama, credo, Marzio,
ogni due o tre anni mi ferma che passo
adagio, in bicicletta, dal marciapiede mi chiede
se Dante era sposato e come si chiamava sua moglie.
«Gemma», dico, «Gemma Donati.» «Ah sì, sì, Gemma»,
fa lui, con suo sorriso, «grazie, mi scusi.»
Un altro,
più vecchio, che incontro più spesso, son sempre io a salutarlo
per primo, e penso: forse si ricorda
d’avermi aiutato, una notte di pioggia e di vento ch’ero uscito
per medicine, a rimettermi in sesto con suoi ferri (a quell’ora!)
una ruota straziata dall’ombrello.
Un terzo, quasi centenario, sordo, per solito
se appena mi vede grida: «Uheilà, giovinotto», e dal gesto
[si capisce
che mi darebbe, se potesse, una pacca paterna sulla spalla,
ma talora si limita a sorridermi, o, ad un tratto, eccitato
esclama: «Ha visto! La camelia è sempre la prima a fiorire»,
o altro, secondo la stagione.
D’altri
pure vorrei parlare, che sono già tutti sinopie
(senza le belle beffe dei peschi dei meli)
traversate da crepe secolari.
Giorgio Orelli
Cfr., volendo.
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