sabato 11 giugno 2016

Franz

L'aereo decolla verso un cielo triestino che copre Venezia. Sulle Alpi, masse di cotone.
In un corridoio dell'aeroporto di arrivo, un gruppo di italiani davanti ad un piccolo televisore: a turno, ciascuno gli si mette di lato per mantenere l'antenna nell'unica posizione in cui l'apparecchio restituisce le immagini di maglie azzurre e maglie bianche sul verde dell'erba finché, per seguire meglio l'azione, si inclina verso lo schermo, molla lievemente la presa e provoca così un immediato oooh collettivo di delusione per la neve che inghiotte la partita.
Scale mobili incanalate in tubi di plastica trasparente, incrociati tra loro a diverse altezze. Gioco con l'inclinazione della gomma sotto i piedi.
Dal portafoglio di mio padre, gonfio, escono dei franchi per pagare il bus.
Rusandidicators: così, con il 14 alla fine.
Ogni mattina, un'acrobazia di mio padre, il più coraggioso di noi: un fià de plu de lat, silvuplè. Efficace e fedele ad un tempo al nostro dialetto.
Camminiamo aiutati dalla guida del Touring, la nostra unica bussola, oltre alle stelle dei nomi dei posti che hanno attraversato l'Ottocento e le frontiere per arrivare fino a noi.
Devo trattenere la pipì un po' più a lungo del solito: non come quando non c'è tempo da sacrificare al gioco, come ai tempi dell'asilo, giusto il tempo di trovare la monetina giusta per aprire la porta del bagno dei bar.
Pioviggina sulla torta salata e su noi cinque, seduti accostati su una panchina davanti ai sexy shops.
Pioviggina anche quando mi ritraggono al carboncino, per espresso, convinto volere di mio padre. Ma quanto ci vuole? Per non sentire lo sguardo dei passanti che passeggiano disegnando cerchi attorno alla piazza, mi concentro sugli occhi del ritrattista, come dal dentista. Durante questo esercizio, cominciano ad apparire sulla carta grigia una lotta tra occhi asimmetrici e zigomi ed un lembo del mio capauei. Ooorzoueichefregaischeiasufradelcolcapaueeei.
Animali piazzati in alto, non tanto quanto il signor Eiffel che sta inspiegabilmente chiuso nel suo ufficio e snobba la vista che ha dal terrazzo, ma pur sempre in cima alla cattedrale, sopra i tetti della città.
Un'immagine scolpita sullo schienale di una sedia di legno scuro appartenuta a Francesco I. Cosa vedete? Cosa vi colpisce? - chiede la guida. La prospettiva - rispondo io. Tutti si girano verso di me  (non conoscono la professoressa Velicogna). È la fine: la guida non mi lascia più in pace durante tutta la visita del castello.
Leonardo, perché qua? - chiedo ad una lapide.
La maestà di una  patata tagliata a spirale nel giardino di Luigi XIV, all'ombra degli alberi.
Ninfee. Campi. Prati. Ruscelli. Colazioni sull'erba. La natura si è rifugiata nei quadri (Trieste, tra mare e Carso). Mia madre, Rossella e Jure si attardano. Mio padre ed io li aspettiamo fuori, al sole, le schiene distese su un muro. Indosso una delle mie magliette preferite, la gialla. Quella con la vela e le nuvole me la tengo per le grandi occasioni. 
Mi sento protetta, a parte quando mandano davanti me, in esplorazione. È così che scendo da sola nei bagni di un ristorante di lusso. Luci, specchi, lavandini senza traccia di una goccia, profumi, asciugamani di lino, cestini di vimini per buttare questi ultimi dentro solo dopo un utilizzo. Identifico e contabilizzo tutto per il successivo rapporto da fare al tavolo. Missione compiuta, anche gli adulti possono scendere, ora.
Le lacrime di mia madre in ascensore, in rusandidicators. Mentre la consoliamo, maledico il borseggiatore dei grandi magazzini che la fa sentire così ferita.
Una sera da sola, in albergo. Passa presto. Il Crazy Horse non fa per me, pare. Mia madre, al ritorno, dice che avrei potuto andarci anch'io.
Bandiere italiane sventolanti su tutti gli Champs-Élysées, fino all'arco di trionfo, non per me o per i miei, che lavorano in viale Campi Elisi 33, ma per Pertini, ospite di Mitterrand.
L'odore della metropolitana, il tagliandino dell'abbonamento nella sua protezione di plastica. Sottosuolo piastrellato con piastrelle ben più vecchie di quelle del bagno di mia nonna, che mi tiene il cane in campagna, mentre sono via.
Caterina de' Medici nel giardino del Lussemburgo. La statua, non lei. Quanti re, come nella storia insegnata a scuola. Il solo di cui abbia mai sentito parlare fuori da scuola è Franz: me ne ha parlato mio nonno, durante una partita di scopa giocata a casa sua, al sesto piano - dove più forte si è sentito il terremoto, qualche anno fa - su un tavolo ricoperto da una copertura verde gommosa con dei rilievi romboidali: dei veri professionisti.
A pallavolo chiamano così anche me, Franz. Non ho i baffi, però. È l'inizio di luglio del 1982: ho 11 anni e 7 mesi - quasi 8.

La partita è la semifinale Italia-Polonia, dice Wikipedia.
La hit parade me la ricorda Youtube. Musicalmente parlando, su tutti, la Rettore, non c'è gara. Fisicamente, però, Miguel Bosé.
Il numero di telefono di viale Campi Elisi 33 è 300717, dice ancora oggi la mia testa. 
L'esperimento è riuscito solo parzialmente. Kein Wunder. Deve essere colpa di alcune foto, scattate allora e riviste forse un paio di volte, nonché delle lunghe discussioni fatte al ritorno a casa. E poi ci sono la mia lingua ed i miei pensieri di oggi. Tutto si sovrappone. Per distinguere tutti gli strati, ci vorrebbe uno Schliemann.

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